Peter Pan, Peter Pan, la merendina per l’universitario.

 

Merendine, Università, piccoli Peter Pan non crescono.

Campus sempre campus fortissimamente campus. Il via allo svecchiamento in onore del fanciullo che, allevato non nella cognizione del dolore ma a veglie nella tiritera con chitarrina “Marcello è vivo” mentre ahimè Marcello è freddo stecchito nella bara, diventerà un quarantenne Peter Pan forse disoccupato con i primi peli bianchi a spuntare nella barba, protetto ormai da chissà chi e chissà  cosa. Il mio figlio che ossessivamente non deve soffrire, sembra debba ormai definitivamente dover non crescere e proseguire il suo corso di vita sul doppio binario del “mangia, riposati prima di studiare non stancarti troppo sui libri” e il “ti ho messo il tofu, il ketchup e la maionese nello zaino per il concertone hard-rave-rock di gennaio nella gola estrema su nelle dolomiti che raggiungerai a piedi nella neve. Per domani, non preoccuparti, se piove passa papà a prenderti a scuola e se finisci benzina al motorino, chiama, veniamo noi a portarti la tanica”. Parimenti, il pupil non deve subire choc da quegli sbalzi epocali improvvisi come il passaggio dalle elementari alle medie, dalle medie alle superiori che magari metabolizzerà in notturna con qualche after hour a vodka e birra a go go per non pensarci troppo su. E lo choc per il passaggio crudele dalle superiori al primo giorno di lavoro o di Università? Ci sono voci di idee atte ad attutire perlomeno il secondo. Per il primo ci sarebbe ancora sicuramente da cozzare nello scoglio irto dei sindacati. Ma pare, pare , pare pa’ che qualche rettore voglia attutire l’impatto con l’entrata all’Università dei maturati, sì, ma da cullare ancora come non crescendi. È un gioco? Un torneo cavalleresco? Una botta di playstation? Uno scherzo giocato a questo vecchio mondo dall’eternamente giovane new deal? Nein. Nada di tutto ciò. È, l’evidentemente più plausibile soluzione conservativa e assieme preservativa contro il trauma della crescita ed ogni sia pur lento scivolare nella consapevolezza. Il primo giorno di lezione all’Università sia benedetto, quindi, e reso accettabile da un merendina day, come nemmeno il primo giorno d’asilo dalle suore. Che non ci pensavano nemmeno lontanamente a radersi i baffi per non farti porre interrogativi all’ingresso all’asilo nell’androne un po’ Cena delle beffe e chi non asila con me péste lo cólga. Allegri ragazzi, non c’è Università, oggi, c’è merenda!

E allora? Verranno sicuramente istituite nuove cariche, incarichi, gettoni, ruoli, integrazioni nel nome di chissà quale clausola  contrattuale. Spese, insomma, Spese. Finanziamenti. Non all’istruzione, sia bene. Allo svago e agli addetti allo svago, alle nuove figure di merenderos, remunerabili a punteggio,? A gettoni? Achissàcome? che fioriranno negli istituti.

Ed eccola, arriverà senz’altro, ecco la figura dello snack planner che allestisca la mise en place. Deciderne varie annualmente. Magari quella dal gusto impressionista dejeuner sur l’herbe, un’altra con tovaglie a quadretti tipo ranch di Rin Tin Tin con gran baci tra i maschi alla brokeback mountain, un’altra ancora in puro stile peplum/ritorno ad Itaca con uccisione dei proci e vendita asta di beneficenza dei rocchetti di filato di Penelope, senza contare l’irrinunciabile in stile Via Dalla Pazza FoGlia, con canne e canneti per un duplice gusto retrò sessantottino/DeleddaGrazia. E quelle Apocalipse now che si alterneranno alle altre in stile The Day After e 1997, Fuga da New York per i giorni delle tesi. Insomma, un po’ di ambientazione. Non si vorrà mica che sembri che siamo all’Università!!!???
Viva John Belushi!

 

D U S E – il film

 

 

Spiazzante, per prima cosa, la mancanza di porsi, o la scelta di non porsi, il problema voce.

E della vocalità, quindi, che ci si aspetta da una proposta ambientata e vissuta da personaggi che hanno ragione di esistere, come il film sostiene per tutto il suo tempo, solo in dimensione ed ambito teatrale.

Un po’ come vedere la storia di Barrault in versione anchilosato.

Cresciuti nel silenzio della Duse su suggerimenti di sue vocalità straordinarie e dizioni appartenenti al mito, assistiamo all’esclusione della questione. In una dizione impossibile che già non permetterebbe un passo fuori da ciò che non fosse strettamente autobiografico-autoreferenziale,

in una scansione che raramente permette di capire, ci si snoda la presenza di una Duse che brilla nell’assenza assoluta dell’elemento all’epoca centrale, che ti permetteva di sussurrare all’orecchio della piccionaia le confessioni sibilate; che gli altri in scena si doveva supporre non sentissero, gli a parte a volte velati proposti come passi di un minuetto, esitazioni, del tutto confidenziali, sottili e insieme arrivanti, affidati comprensibili allo spazio, piccolo a volte, altre volte ferocemente vorace tra il palcoscenico e la platea, i palchi, i loggioni, i paradisi, dei teatri.

Quindi Duse, che i Savinio ci liquidavano con poca simpatia come la dolorosa, che la pochissima iconografia ci dava con sguardi obliqui in angolo d’occhio nell’innalzare i sopraccigli e mento al cielo, e che la storia ci ha finora regalato come la modernissima ammodernatrice dell’Arte Teatrale, ‘La Voce! Aveste sentito la Voce!’, qua è una figura-pretesto dall’occhio perennemente umido per raccontarci altro, poco di lei – come vorrebbe un teatro-laboratorio sperimentale e di ricerca quanto la sua strada percorsa – e un docu-film sull’altro grande ammodernamento piovutole come a tutti in capo, presto strisciante negli ultimi tre quarti della pellicola, questa volta social-antropologico-politico-tragico-farsesco che fu il Fascismo. Che vediamo prenderla per le mele, ignara, mentre poverina si invade di sé, arretrata, invasata, laddove la grande contemporanea Bernhardt, italianamente sempre voluta più baraccona della nostra ligia, geniale, essenziale e precisa nel sorprendere divina, qua ci fa un figurone di illuminata – eh già, ma lei veniva da Cartesio –  davanti a una nostra esaltata saltata di slancio, come l’ostacolo da un cavallo che non si accorga di aver saltato, dalla tragedia del 14-18, della quale viene messa sull’avviso, in una scena rimbrotto-bada-bada dalla Sarah mondiale dopo di che, in una sorta di ‘Com’è vero, Signora Mia!’, si abbandona all’ebrezza dell’egalité-modernité. Proprio come avrebbe detto Wanda Osiris intervistata dieci anni dopo la sua ultima chiusura di sipario: ‘il teatro che farei oggiiiii? dovrebbe essere roooomantico”, e giù volute tracciate in aria con la punta degli indici, “e al tempo stesso mooooderno!”, e via due belle secche grandi parentesi quadre tracciate sempre in aria, sempre a forza di indici rapidograph. E il film continua, e la va e la va, senza lasciar capire bene dove ci voglia portare; e giù pessime dizioni, incomprensibili fonemi ci conducono fino alla fine di un delirio che di Vate in Vate ci fa pure tenerezza. Poverina, vien da pensare, come mai si sarebbe potuto pensare di poter un giorno pensare della D U S E. Il paradiso delle scansioni. C’era una volta Martin Eden. Fonè perdonaci tu.