I suicidi del mondo

I SUICIDI DEL MONDO

Stiamo combattendo una guerra minacciosamente interminabile per una causa assurda e che in realtà non esiste e le cui vittime sono e saranno vittime di quella follia che quando da laica diventa istituzionale si veste di una sgargiante inaccettabilità dalla quale non la monda nemmeno la sua inverosimiglianza. Sarà strenuo mondare tutti i colpevoli dai loro peccati.  Come non meriterebbero, i colpevoli di peccati di cattiveria e di trasversale bontà verranno consegnati alla storia, assurgeranno al vanitoso ruolo di inquilino dell’eternità; ruolo per il quale hanno declinato quel senso di responsabilità e di consapevolezza che semplicemente si hanno o si dovrebbero avere , se non per altro, come semplici esseri parte di un’umanità che troppo sovente non comprendiamo o alla quale non ricordiamo di appartenere, una società della quale non abbiamo alcun senso, nessuna coscienza, come nemmeno abbiamo più coscienza dei nostri ricorrenti suicidi; e più nemmeno dei morti.

 

la battaglia degli eroi  lele cerri 1997

 

Nous menons une guerre qui semble déjà interminable pour une cause absurde qui en réalité n’existe pas et dont les victimes sont et seront victimes de cette folie qui, lorsque de laïque devient institutionnelle, s’habille voyante d’inacceptable dont même son invraisemblance ne la purifie pas. Il sera difficile de purifier tous les coupables de leurs péchés; comme ils ne le méritent pas, ils seront relégués à l’histoire, ils s’élèveront au rôle vaniteux de locataire d’éternité pour lequel ils ont décliné ce sens de la responsabilité et de la conscience, que l’on a simplement ou devrait avoir en tant que simples êtres faisant partie d’une humanité que trop souvent nous ne comprenons pas ou à laquelle, trop souvent, ne nous souvenons pas d’appartenir, dont nous n’avons pas le sens, aucune conscience, comme nous n’avons aucune des nos suicides récurrents; ni des morts.

We are fighting a menacingly  interminable war for an absurd cause which in reality does not exist and whose victims are and will be victims of that madness which, when from secular becomes institutional, takes on a flamboyant unacceptability from which not even its improbability will purify it. It will be strenuous to cleanse all the guilty from their sins; as they do not deserve, they will be consigned to history, they will rise to the foppish role of tenant of eternity for which they have declined that sense of responsibility and awareness that one simply has or should have as simple fragment of a humanity that too often we do not understand or to which we do not remember we belong, of which we have no sense, no consciences, as well we have none of our recurring suicides; nore of the dead anymore.

 

The Square, un film per tutti

The Square – il film di Ruben Östlund

The Square, un film per tutti.

 

Un po’ come quando a una proiezione di un film lappone in lingua originale qualcuno seduto dietro di te si dà a percettibili risatine e mugugna in maniera da essere sentito a dimostrazione che capisce perfettamente il lappone ladakhi,  anzi, che è una lingua in cui scherza anche col gatto. Ecco, mi ha fatto quell’effetto la critica del New York Times: “da morire dalle risate”. Ci speravo anch’io, l’idea mi faceva gola. Tanto. Purtroppo, sono uscito vivissimo da un film che mi è sembrato bello al di là di sue momentanee involuzioni, autopunizioni o dicotomiche smaccate autoindulgenze. Perché, ancora purtroppo, a parte qualche rarissimo strappato sorriso, non ho mai avuto voglia, in nessuna scena, di ridere stronzamente, à la manière de, sulla rappresentazione della stronzaggine, nel gioco diffusamente ritenuto molto qualificante di cavalcare impalcature-sovrastrutture come fossero purosangue o come fossero l’impalpabile ultimo fiocco di cenere di quella fenice che è un presunto qualsivoglia talento pronto a risvegliarsi in noi, all’occorrenza, per premiarci come il fantasma di un antenato che ci ammanti di blasone, sul rettilineo d’arrivo di una corsa all’anabasi, anabasi!, a sottrarci alle conseguenze di ogni sprofondamento della nostra anima, di ognuna delle nostre toppate, grandi o grandissime che siano, alte o basse, senza farne adesso classificazioni di rango, oppure facendone, nei momenti fortunati in cui si possa ripartire da zero o poco più.  Eventualità, tutte, che investono anche il genio creatore protetto da Fortuna divina che si vuole facciano perdere meno a chi ha meno o nulla da perdere e, apparentemente e secondo alcuni gradi di valutazione, facciano perdere molto di più a chi ancora non ha perso niente di quello che fin lì si è strepitosamente aggiudicato.

Entro al cinema circondato da mormorii e disperazioni sull’insopportabile ricordo di un’Italia Svezia del giorno prima.
A rendere più acuti i dolori per subiti pallonetti, dribbling, barriere e corpi a corpo vari, allo spettatore sconsolato già devastato dalla già patita  perfidia della Svezia, in risposta alla preghiera “padre allontana da me questo calice, ma straziami ancora se serve a darci i nostri derby, andate, ritorni, coppe e targhe quotidiani”, è arrivato, come un ceffone dopo un mancamento,  The Square.

Ormai è fatta. Il film è finito, spalmato sulle facce di qualcuno visibilmente rititolato “Un tentato eccidio”. Mi avvio nel dondolio dei sopravvissuti. A guardarli brancolare verso l’uscita, The Square, più che un film, è stato un cecchino che ha smitragliato su corpi indifesi centrati in pieno nella luce dei fotogrammi che scorrevano sullo schermo come un nastro mitragliatore.

Corro scendendo a quattro a quattro i tre scalini all’uscita del cinema e, nudo a pelle di qualsiasi risollevante consolatorio aggancio calcistico, raggiungo quella che mi appare la più prostrata, disperata vittima della visione di The Square; miseramente lo aggredisco e gli propongo una più prossima a noi versione interpretativa:

Il film è un condominio con qua e là tratteggiato l’incubo di una simulazione di riunione condominiale in cui ci necessiti un nostro intervento in cerca di una soluzione, quale che sia, tra migliaia: per noi elementi sociali in equilibrio incostante, per un nostro tubo che perde, per i problemi altrui che si manifestano come piaghe bibliche, con diffusa nel cuore un’istintiva antipatia nei confronti di un condomino del secondo piano per niente paragonabile all’insopportabilità ustionante dell’indifferenza degli occupanti l’attico che nemmeno ci salutano, nemmeno se centrati in pieno sul portone. E, ancor più,  l’incubo fino all’ultimo respiro, affollato di dettagli che si susseguono con la velocità di un serramanico,  stretti alla gola dall’affanno in un’ inevitabile e interminabile discesa dalle scale un giorno in cui l’ascensore è guasto, con in mano una  frusciante mazzetta non più furtiva ammollataci furtivamente nel ripostiglio del piano di sopra o con i pantaloni squarciati sul sedere, o ecco sbocciare dalla fessura tra due scalini, al braccio del  marito, la signora alla quale giorni prima abbiamo fatto una quasi impercettibile quanto consapevole mano morta in ascensore; o è  la signora della pulizia scale ex proprietaria dell’appartamento che abbiano comprato a due lire all’asta? O la nuova Babele. O il nuovo Caos dopo anni di tentati Logos, o un fac-simile della sera di Sant’Ambrogio alla Scala. O un corteo di striscioni ‘Prima il concettuale o l’uovo di gallina?’, ‘Il jazz è una tenda a ossigeno‘, ‘Io sono mio‘, ‘A house is not a home‘, ‘Transenne all’Avanguardia‘. Un ricadersi in bocca, come a tratti fa il film per esemplificare. E via e via… Visto che è un film per tutti?

The Square – il film di Ruben Östlund