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10 febbraio 2024

Billie Holiday non forma ma essenza / Billie Holiday not shape but essence

Si parla spesso della voce più o meno in forma di Billie Holiday… Parlando di lei, non significa gran che. La sua voce contiene sempre tutto ciò che l’autentica profondità contiene. È estranea ad ogni classificabile forma o stato e il suo suono è sempre talmente magnifico che, sebbene lei stessa desiderasse così fortemente essere e sentirsi considerata una cantante popolare con tanto di arrangiamento per violini, parlare di lei semplicemente come una cantante è limitare la sua grandezza.

Holiday non appartiene a una dimensione conosciuta. È una galassia a sé.

Ciò che è eccezionale è che nella sua indefinibile eccezionalità, ha rappresentato e rappresenta e con forza esala, tragicamente e candidamente, i colori dell’anima nel modo in cui ognuno che l’ascolta vorrebbe riconoscere dipinta la propria.

 

You all often talk about voice bad shape… That doesn’t mean so much talking about Holiday. Her voice always contains all that the real deepness contains,  it’s alien to any classifiable form/shape and its sound is always so magnificent that, although she herself strongly desired to be a popular singer and to sing with violins, to speak of her simply as a singer is to limit her greatness.

She doesn’t belong to a known dimension. She is a galaxy apart.

What is exceptional is that in her indefinable exceptionality; she represented  and strongly exaled, tragically and childishly, the colours of the soul in the way all those who listen to her would  like to see painted their own.

Copyright lelecerri.com

thanks for all pictures from : http://www.billieholidaysongs.com/recording-sessions/1958-sessions/

 

 

17 settembre 2023

 

IO CAPITANO   di Matteo Garrone

Ho visto IO CAPITANO.

Non si possono imputare difetti al film ma il difetto di non considerare che gli spettatori sono un’entità difettosa; e penso non si debba riservare loro un trattamento democratico.

Attori bravissimi molto evidentemente eccezionalmente diretti, film bello, bellino, ma insufficiente al tema; che è una colossale mastodontica smisurata  tragedia umana e, anche per i tanti che ad applicare la pietà non ci pensano proprio, un, inevitabilmente in atto, centralissimo e grandissimo ineludibile fenomeno, processo epocale che, come molti altri in tutti i tempi, sta investendo e interessando antropologicamente, senza  condizioni, il presente e il futuro dell’Europa intera e si diluirà, rimbalzando, più o meno riconosciuto tale, più o meno doloroso, nelle arterie e nei capillari del mondo. Tragedia e cataclisma antropologico, nel film sommersi e accarezzati in superficie,  trattati a conforto delle anime che, per la sola fatica di essere stati seduti in sala nel buio illuminato dalla pellicola, dal film traggono un’assoluzione che neppure si sognavano minimamente di chiedere. Tragedia e cataclisma epocale aiutati a convertirsi in dibattiti di attivisti graniticamente non attivi o attivi altrove, o in uno dei momentanei salvifici arricchimenti colloquiali dei meeting pomeridiani di noi ottime persone comuni, vuoi ambosessi spazientiti in una qualche coda o nelle sale d’attesa CUP, vuoi signore nelle sale da tè di ogni qualche disperato bar che se le vede in gruppo a un tavolo davanti all’unico caffè di tutto il pomeriggio con cui sanciscono il diritto a quattro ore di ciance indisturbate. Passando loro accanto per l’inevitabile percorso cercando la toilette, le sentiremmo stupite, forse inorridite, c’è da giurarci spaventate, ma non commosse; e sicuramente vedremo esalare intorno, più che aleggiare,   coscienze tranquillizzate dal loro impegnato sforzo critico in quel simposio distrattissimo quanto incancrenitamente unicamente allarmato per la propria sicurezza, in una presa di coscienza del dramma e dello sconvolgimento in atto che, con probabilità preoccupante, non andrà mai oltre il che sarà mai del mio tinello e dei miei nipotini, i valori oh i miei i valori, sentirmi a casa mia, non è il modo non è il modo, o, per il loro volitivo nipotone: il mio paese è mio.                                                 Mi sbaglierò, spero di sbagliarmi, vorrei essermi sbagliato nell’impressione, nel non trovare la consanguineità sperata tra temi e loro trattamento. Vorrei sbagliarmi e non sentire il nascere di paure che mi sbocciano non desiderate e non amate. Quando il cinema in certi casi è troppo cinema, quando nel progetto di non fare distinzione di destinatari sembra non avere l’esigenza di mettere a fuoco, nel rischio alto di una sua temporaneità, il controllo di ciò che possa rendere inutile una destinazione così concepita, il facile accesso, di cassetta dicono facilmente i chissenefreghisti. Quando altro o il Cinema, anche soltanto involontariamente, per volonterosa democraticità di linguaggio serve chi non chiede di essere servito di portate che non rientrano nel suo menù mentale, che non riguardano i suoi gusti, i suoi appetiti, il suo metabolismo. E via, morto uno spettacolo, se ne fa un altro.

E della tragedia ancora non abbiamo capito nemmeno che cosa sia e dove stia il lumicino con scritto uscita. Mentre pretenderemmo che apparisse, per nostro diritto, chissà quale,  il fotogramma con THE END, la sua.

Un caro saluto di buona domenica.

 

 

16 maggio 2023

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO e di PUPI AVATI

Violento. Di una violenza  sentimentale forte e sfrenata come adesso si spiega bene con pazzesca. Ti pesca dentro spietatamente. Non ti viene nemmeno di pensare alla fotografia o ai piani, che è e sono semplicemente indubitabilmente quelli giusti. Potrebbe essere su pellicola a losanghe o a pois non importerebbe.   Il film è quello che tratta e come lo tratta. Questo per i primi 40-45 minuti.

Poi l’ho sentito diventare fiction, con qualche lampo di ritorno allo stato di grazia che punteggia qua e là gli ultimi 15 minuti.

Ma anche un maestro di case dalle finestre che ridono, di gite scolastiche, di cuori grandi di ragazze, che pure arrivano eccome, di aliti di gelsomino del non colore dell’aria di Macondo può portarsi nel suo, di cuore, anche se ormai libero, l’ingombro, il fastidio di condizionamenti-assalti non tanto sonnecchianti inflitti dalle raffiche continue di qualcosa molto simile a nuove estetiche, dalla mutazione della comunicazione variata nell’antropologia dinamica dei social, dall’universo dei media, dalle nuove leggi della realizzabilità.

Lodo Guenzi, su cui è infissa la punta del compasso intorno alla quale ruota il cerchio galattico dei sentimenti, caratteri e loro motivi, mi è parso stranamente stereotipatino proprio nei momenti davanti alla sua arma d’origine che è il microfono, mentre, mi sento di dire, perfettamente misurato in ogni altra zona della parte sempre difficilissima e sempre rischiosissima del nevrotico.

Fenech, in una posizione disagevole come quella di Swanson in Sunset boulevard, manca, come tutti al mondo, dei geni della Swanson in quel capolavoro; ma ho trovato  in quello che semina in tutte le sue scene la poesia della causa strenuamente sposata, ovvero il film e il proprio ruolo che, come augurabile ma per nulla matematico, le ho sentito declinare sentitamente con delicatezza.

Molto carino, bello, mi è arrivato diritto al cuore il pacchetto dei titoli di testa con immagini d’epoca e pianoforte all’uso del garbo di Allen b&w. Poi Cammariere-Gregoretti e Avati non resistono alla necessità di archi ad arcobaleno. Ma l’impressione è stata che siano serviti loro per dichiarare subito onestamente le intenzioni a venire. Per il resto della musica, mi è arrivato un tormentino dello stesso giro armonico per ogni proposta. Ma dato il cachet non tanto caché del regista e rimanendo dello stesso animo ben disposto offerto, fin dall’entrata, da spettatore che assiste alla creazione di un mondo,  mi butto prudentemente a credere sia scelta estetica funzionale e necessaria. Sì, ci chiamano Mimì.

Il film, nei fili anche interni del gomitolo non aggrovigliato, e illuminato fin ben dentro che è, somiglia un po’ a te, un po’ a me, un po’ a noi, un po’ al nostro migliore amico, un po’ al peggiore collega, un po’ a una per niente latente  presenza infantile sparita nel nulla, un po’ a quello là che conoscevamo… poi di nuovo a me, poi di nuovo a te, poi di nuovo a tutti, poi per fortuna no a chi si vuole bene, poi invece purtroppo sì.

E chi è lo sciagurato fortunato che non ne ha dentro una fetta, anche sottile come una di Langhirano?

All’uscita, viene voglia di rivederne i primi tre quarti d’ora per riconciliarsi col film per intero. Ma viva Avati comunque. E grazie Maestro per il tanto lavoro, sempre, che è come quello anche di un solo film: difficile faticoso impegnativo pieno di incognite sebbene conosciuto, che fa sudare sangue all’anima; anche se amato.

lele cerri

 

 

12 gennaio 2023

GRAZIE RAGAZZI di Riccardo Milani

con Tutti Bravi

Surprise! Surprise! Surprise! modulava un coro in una pubblicità di piselli congelati che alla TV inglese, in quell’inverno del nostro contento 1964-65, interrompeva ogni 15 minuti il film o quello che ci fosse in programmazione.

Un surplus di piselli da avere nausea di piselli e sorprese per tutta la vita.

Ma sorpresa, molto sorpresa, bella sorpresa, ieri sera al cinema Centrale, ex Pidocchino adesso sala di rodaggio per film di qualità ma anche non, dove ho avuto quella sempre più rara sensazione, stato d’animo, mood, dolce trastullamento, di quando desideri che il libro che stai leggendo non finisca mai.

Anche se ero rassegnato all’idea-consapevolezza che tutto, più nel bene che nel male, finisce, non avrei mai voluto che Grazie Ragazzi finisse.

Eppure ero arrivato un po’ timoroso, non scettico, come spesso mi succede, ahimè, ma timoroso sì,  per il fatto che il soggetto teatro-carcere-istituto di detenzione ad ampio spettro avesse già illustrerrimi precedenti, tanto illustri che per loro illustrissimo è poco; il mio malanimo sprizzava una nuvola di  ‘facce ride…’, proprio quelli di cui platee incallite di matiné e serali cibavano i digiunatori artisti di avanspettacolo, platee smaliziate e precise infallibili nel lancio di  gatti morti tirati a tornichetto a  planare in piena scena o, con più mano, in faccia al fantasista; insomma, la cattiveria dello spettatore pagante, sì, ma spesso anche di quello sfrontatamente ospite. Osso duro, lo spettatore! Di solito recita e dirige benissimo, almeno finché è in platea.

E invece no! Mi sono ritrovato in tutt’altro stato. Nodo alla gola? Bello incravattato, sì.

Rapito, emozionato fino alla commozione, continua, costante, per tutto, per la bellezza della proposta che nel teatro c’è vita, salvezza e speranza nostra, salve, come ci hanno insegnato da piccoli anche in latino, sia all’oratorio che alla messa chic di mezzogiorno con le signore impellicciate, il braccialetto a manetta o di sterline d’oro al polso.

Commosso per tutti i segmenti che hanno composto l’unicum della trama, coinvolgenti sempre, senza aver nessuna remora a riconoscere di fronte a me stesso la bellezza di commuoversi per ogni che succedesse sullo schermo, perfino delle furbizie che fluttuavano per tutto il film; anche un po’ della sua ruffianeria buonista un tantino alla Frank Capra, come avrei rimuginato poi, ruminando, ben dopo l’uscita, come si fa quando ripercorri criticamente un’emozione.

Che mi sia vergognato con me stesso per aver avuto le gote umide per tutta la durata della proiezione? No. Commosso. Per tutto, per la sfrontatezza del continuo proporre una disperazione che nell’ottimismo e nella bontà montessoriana ci fa continua zuppetta come nemmeno nelle prime candid camera del duemiladodici a.C. , quando freschi spettatori televisivi all brand new inebriati da Nanni Loy. Ma no! Macché vergogna! Nemmeno per sogno, sai che c’è?, stasera, dai Bravi Ragazzi, ci torno.

E nell’assurda speranza che quel Godot bellissimo non finisca mai, si arriva sfiancati dal senso di bellezza che molte cose hanno perduto la capacità di infondere e che qua ti riveste di continuo, per tutto ciò che compone il film e che in tessere, nuvole, momenti fitti di sé, ti arriva addosso e ti avvolge del tempo e del pulviscolo ormai immaginario della proiezione. Che sai deve inesorabilmente finire, di cui ogni momento è un momento in meno, che ogni momento è lì ad avviarsi verso la fine. Anche questa è una delle tensioni che il film riesce a creare, che lo creano, che lo compongono.

Ma.

Anche il finale è bello astuto. Per accompagnarci o buttarci fuori da quella bambagia irsuta in cui il film ci aveva adagiato, al film occorreva una soluzione a quel punto difficile, un gimmick come dicono gli americani fin dai tempi del Vaudeville nella loro lingua ormai a noi tanto cara da risultarci indispendabile, una trovata, e la trovata è stata trovata. Ha un po’ meno tensione di qualsiasi altra soluzione e di qualsiasi momento del film, ma ci ha offerto una coraggiosa soluzione-alternativa ai pericoli che una storia-plot-trama così fatta correva nel finale.

Non avrei mai pensato, quando ho deciso di andare a vedere Grazie Ragazzi, che mi sarei ritrovato a rifletterci più di tanto.

Ci tornerò. Non foss’altro, per la goduria indecente, spudorata, di vedere recitare così bene, tutti, sorprendentemente, come non vedevo da anni in questa Italia cinematografica, o generalmente scenica, da troppo tempo diventata così smanaccante e ammiccante.

Lo svergognato coraggio, la presunzione di poter essere tanto sentimentali da far venire voglia di vedere ‘sto benedetto Godot, da riuscire a incuriosire sul fatto che esista, da far venire voglia di cercarlo dove non c’è più da tempo.

Surprise, alla francese o all’inglese che sia, sorpresa, bella! Anche se illuminati illuministi vorranno condannarne in eterno il coté sentimentale che loro potrà sembrar pari al fascino egizio che non nascondeva l’artefizio di Lola Prima.

A più tardi, ragazzi, torno a vedervi.

                       

 

25 settembre 2022

MAIGRET – Patrice Leconte  con Depardieu

Ho visto Maigret di Patrice Leconte con Gerard Depardieu. Non ho letto Simenon ma mi dicono che Maigret e La Giovane Morta da cui il film è tratto è parecchio diverso dagli altri 75 romanzi e 28 racconti anch’essi imperniati sul metodo Maigret.

 

Depardieu, solenne, dirà sì e no venti parole nelle tre battute in croce che ha in tutto il film.
Il film è bello. Leconte, si sa, lo abbiamo sempre visto, ha un suo linguaggio cinematografico molto letterario, sempre. Qua l’ho trovato crepuscolare, ma avrebbe avuto la stessa impressione anche un gatto, e di una malinconia che va ben oltre la malinconia. Anche un po’ schizofrenico: più che con i cut cut cut furiosamente rapidi, netti, ormai così indispensabili al cinema di adesso, qua Leconte ci sposta a spallate da una collocazione a un’altra che ci sarà da capire come attenga, con la camera che si sposta scavando come sguardi attenti a cercare qualcosa che si sa che c’è ma non dove e cosa sia, e lo fa tuffandosi in piani che funzionano come zoom-dettagli-primo piano di capigliature e di apparentemente inutili stoffe delle spalle di un vestito per proseguire e perforarle fino a trapassarle sprofondando nel pelo dei capelli e nella nuca di chi lo indossa per sbucare a inquadrare la faccia di chi gli è di fronte. C’è, c’è, c’è, da qualche parte c’è. Qui o altrove. Cercare, cercare, cercare è necessità, è un pensiero in cui si sprofonda di continuo con il più profondo sentire per quello cui è rivolto.
Un film pieno di tristezze lecite, con motivazioni personali dapprima  sfumatamente suggerite, poi fatte più nettamente sospettare e infine elementarmente addirittura dichiarate, in chiusura, come chiamate per nome.
Mentre lo vedi è un lavoro cinematografico che richiede l’attenzione su come è fatto, per come è fatto, per un continuo naturale invito a perderti nel cinema di cui è fatto il film, per un continuo suo voler portarti a sperderti in movimenti di ogni tipo, di camera, di luogo e di sviluppo, come fa la mente che cerca, e che mentre cerca ricorda, come fa l’occhio che vuole trovare. Insomma, stai attento al film, a non confonderti tra facce terribilmente tutte uguali delle figure femminili messe lì così come a confermare ossessivamente un modulo al quale non si riesce a sfuggire. La tragedia avvenuta, la intuibile morte della figlia, poi acclarata da una irresistibile, innegabile legittimazione a chiamarla quasi per nome, si perpetua, è perpetuata da quello sguardo-camera-pensiero-contenutodiMaigret che cerca, fruga in una mobilità che non è un cut cut cut ma è inquietudine, di quella seria, profonda, che chi la porta e chi la percepisce può di diritto chiamare dolore.
Insomma, vai al cinema, poi esci dal cinema, vai a fare due passi convinto di aver visto un film e, arrivato a casa, da solo, ti affiorano tutti i sapori morali sentimentali umani dei quali il film è non così semplicemente impregnato.

 

 

7 agosto 2021

Non resta nulla. Barche vita mia

 

(m/y Nidas in navigazione – foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi)

Tutti i veicoli d’epoca che ho usato per i miei spostamenti erano italiani e degli anni ’50. Anzi no, uno era inglese. All’epoca mi muovevo spesso. Quando riuscii a comprarmi una barca pensai che ce l’avevo fatta, ero davvero felice; quella barca, proprio lei, l’avevo vista molto tempo prima e me ne ero innamorato al primo sguardo, subito. Tutte le barche a bordo delle quali sono salito o che ho guardato a lungo da piccolo e anche dopo, dalla banchina, sono rimaste impresse nei mie occhi e nel mio cuore; ne ricordo minuziosamente e con emozione le linee degli scafi, la distribuzione delle sovrastrutture, la riga colorata, gialla o blu, delle loro linee di galleggiamento, le vele, i dettagli della poppa e degli alberi. E la girandola immobile delle eliche quando erano in secco sugli scali.  Comunque, tra tutte, quelle che mi sono rimaste care come le zone più belle della mia adolescenza sono la prua dritta del Sibilla e del Perry, la lunga poppa a ventaglio del vecchio motor yacht dall’aria straniera che si voleva fosse stato degli Antinori e divenne il primo bar galleggiante del porto, l’enigmatico Nidas, di origini francesi, dal naso alto e lo specchio di poppa ad accarezzare la scia: e poi le linee già più flessuose e lanciate verso la modernità di Edna, del Dentale e della sua quasi gemella Qibla, del San Giorgio e del Filippo II, l’assurdità catturante del Mavì, brigantino goletta in ferro con lamiere imbullonate che coi suoi alberi, pennoni, trinchetti e doppi bompressi sembrava già pronto a portare in una comoda andatura di lasco Capitan Uncino dalle maree e dai flippers, dove già sgominava rivali e concorrenti,  in qualche futura, imminente gara digitale su percorsi ancora più luminosi, tra cosi tante nuove intermittenze di lampi e di suoni, voci stridule, nasali, ammiccanti, meccaniche e beffarde, campanelli e risa sbeffeggianti da fare invidia al fantasma di Canterville.

Non resta nulla… lo scafo magnifico dell’Old Fox dalle linee sinuose, che accoglievano l’occhio e lo facevano loro per sempre, un ketch di impressionante bellezza, sopravvissuto a guerre e tempeste e che adesso, gli alberi ancora eretti, il boma della maestra semi-accasciato sulla (imperterrita) coperta di teak,  l’albero di mezzana ormai senza sartie ridotto a bastoncino per la girandola di un bambino, stava morendo, ancora magnifico, fiero, ancora dritto in chiglia, conscio della propria bellezza, nell’invasatura che aveva ceduto, quasi appoggiato a un muro di cinta sullo scalo più remoto di un cantiere in piena attività.

Non resta nulla.

(piccoli yacht all’ormeggio – darsena Europa Viareggio fine anni 50)

Alca 12 agosto 1951 Cantiere Bergamini
foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi

Nothing remains. Boats, my life.

All the vintage vehicles that I used for my travels were Italian and from the 1950s. Indeed, no, one was English. I used to move frequently at that time. When I managed to buy a boat I thought I had made it, I was really happy; that boat, just her, I had seen it a long time before and I fell in love with it as soon as I saw it, immediately. All the boats on board which I got on or which I looked at for a long time as a child and even after from the quay, have remained etched in my eyes as well as in my heart; I meticulously and emotionally remember the lines of the hulls, the distribution of the superstructures, the sails, the colored line, yellow or blue, of their water lines, the details of the stern and the masts. And the motionless pinwheel of the propellers when they were out of the water on the slipways.

Viareggio Darsena Europa anni 50

However, among all, the ones that have remained dear to me as the most beautiful areas of my adolescence are the straight prow of the Sibilla and the Perry, the long fan stern of the old foreign-looking motor yacht that was supposed to have belonged to the Antinoris and became the first floating harbor bar, the enigmatic Nidas, of French origins, high-nosed and her transom to caress the wake; and then the lines already more supple and launched towards the modernity of Edna and Dentale and of its almost twin Qibla, of San Giorgio and Filippo II, the capturing absurdity of the Mavì, an iron brig schooner with bolted plates that with its masts, yards, foresails and double bowsprits seemed ready to take Captain Hook, in a comfortable slack reaching gait, from the docks and pinball machines, where he was already vanquishing rivals and competitors, to some future, still unknown imminent digital competition along even brighter paths, to get stunned, who knows, and slipping brilliantly dizzy in dives and emersions in and from so many new intermittent flashes and sounds, among shrill, nasal and mechanical  winking voices, bells and mocking laughter to make the Canterville ghost envy

Nothing remains… the magnificent hull of Old Fox with its sinuous lines, which welcomed my eyes and made them their forever, a ketch of impressive beauty, which had survived wars and storms, the masts still erect, the main sail boom half-slumped on the (undeterred) teak deck, the mizzen mast now without shrouds reduced to a stick for a child’s pinwheel, was now dying, still magnificent, proud, still straight on the keel, conscious of its own beauty, on a socket that had given way, almost leaning against a the farthest boundary wall by the most remote abandoned slipway of a shipyard in full operation.

Nothing remains.

 

 

        (m/y Nidas in navigazione – foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi)

Alca 12 agosto 1951 Cantiere Bergamini –                                                                           foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi

Nothing remains. lele cerri 7 agosto 2021

 

 

La magnese del Fabbri 2 agosto 2021

La magnese del Fabbri.  Viareggio delle estati

La magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca più del libeccio sulle onde delle nostre sverinate di poco prima, le schiene inarcate, il petto a dividere le acque come nemmeno Mosè, come lanciati verso una salvezza, la testa immersa tra le braccia allungate in avanti, le punte delle dita a polpastrelli raggrinziti che facevano a tratti capolino dall’acqua là in cima alle mani distese a emergere mentre si scivolava veloci verso le secche, a navigare come temperini sull’acqua sempre più bassa, sempre più bassa, fino a raschiare il fondale ondulato, fino a terra, a riva, ormai arenati, spiaggiati, le ultime lingue di mare che ci raggiungevano carezzevoli ci scavavano intorno ai fianchi in mulinelli morbidi a riempirci i costumi di sabbia. Ora, al libeccio in cima alle cabine la magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca, il cartoccino di carta grigina subito vuoto. La prossima volta forse sarebbe stata una gazzosa.

Viareggio delle estati  – lele cerri 2 agosto 2021

 

APRILE 2021

Il Tempo è implacabile. Ragù e zucchine.

Il tempo è implacabile.. quando un’epoca è passata, è passata. E non è più l’epoca in cui qualcuno ti vizi, nessuno ti vizia più. Nemmeno le amiche più più più ma così più che per te, guarda!…, farebbero chi sa che… Nemmeno le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare. Nessuno, niente, nada, nisba, nessuno ti fa più gli zucchini ripieni. E allora? E non te li puoi fare da te? No. Eh no. Perché come tutte le cose speciali di questo mondo, anche gli zucchini ripieni se te li fai da te fanno l’effetto di un regalo di Natale che ti sei comprato da solo un giovedì a caso di dicembre. Ma quella voglia.. quella voglia… Sai non è poi tanto grande in fondo… se lo si guarda sul mappamondo… E uno se la sogna anche la notte e ci si sveglia la mattina, non con quella voglia, che di mattina appena svegli non ci sta, ma con quell’idea lì. E allora uno, a tentoni, gli occhi semichiusi della domenica non troppo presto, decide di tagliar corto, prima di farsi il caffè apre il frigo, tira fuori dal congelatore il ragù che si è fatto la settimana prima e che come tutti i ragù col tempo è diventato più buono, lo mette a scongelare e capisce che ha deciso di volersi bene. Domenica! Vivement dimanche! Domenica è sempre domenica. Sora Menica, oggi è domenica, lassece sta’. Il ragù lì che scongela e lui via per Pedona lungo la via nei boschi sopra Pian di Mommio. La ricetta del ragù? La stessa per tutti, ognuno a modo suo. Il ragù è una delle cose che più somigliano, in ogni sua riuscita, a chi lo fa. Il ragù è il ritratto di se stessi. L’impronta del proprio palato che nemmeno.. nemmeno… nemmeno il commissario Ingravallo del Pasticciaccio. Sicchè, il ragù e lì, scongelato, mia carta d’identità, i piedi giù in fondo alle gambe, li sento ancora sui ciottoli del monte. Gli zucchini nell’acquaio a lavare; li asciugo e li taglio a metà in lunghezza e poi a tocchi, alla camaiorese, diceva la Chica. Il tegame di misura strategica è sul fuoco, con poco poco olio a scaldare bene. E gli zucchini a tocchetti appena ci arrivan dentro ci fanno sfriii sfriii. Come ci fanno gli zucchini a tocchetti? Sfrii!… sfriii!… mentre li giro e li rigiro perché facciano la pellicina sul verde senza sbruciacchiarsi. Guardo la pasta nel pacchetto che mi guarda dalla finestrina trasparente come a difendersi già delle boccate che le darò e mi spara in faccia il suo nome, come se fosse un’ancora di salvezza, un’ultima difesa possibile… Rummo! Solo per te la mia canzone voooola! Ha poco da cantare… Gli zucchini sono al quarto minuto di sfrigugliamento, si prendono una spelucchiatina di peporin-timo e un po’ di sale, un altro mezzo minuto di rigirate sul fuoco molto alto per un altro po’ di pellicina e via che gli piove addosso il ragù scongelato che ricco lo ammanta nell’abbraccio della ricottura insieme. Lo sento già dall’odore il sapore degli zucchini ripieni che non dico le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare, ma perfino le mie amiche più più più ma così più che, per te, guarda, per te!.. non mi fanno più. Nun t’accora’.. nun t’accora’!… Ma ci siamo!… la pasta è pronta, di molto ma di molto al dente! …nel ragù salta… zucchin non manca… sul fuoco sventola… bandiera bianca?.. macché!… il gran pavese!!!… Andiamo, è in tavola.

(Parmigiano – uno dei grandi sovrani del mondo – a piacere).

P.S.

Piatti sempre rigorosamente bianchi… i colori trionfali sono quelli dei cibi.

Il tempo è implacabile – lele cerri 6 aprile 2021

 

BALENCIAGA E I DRACULA 9 febbraio 2021

 

Balenciaga                                      fall-winter 2017-2018

Balenciaga e i dracula

Balenciaga si rivoltera’ nella tomba. I parvenues arrivano ovunque, da sempre. Sono arrivati anche da lui. Rappresentarlo in toto, come qualcuno ha scelto di fare, con questa immagine della collezione 2017-2018 è come mandarlo a cicoria (eufemismo sprecato, vista l’offensività della foto). Come mettere sulla tomba di un morto uno scatto rubato mentre era in bagno con una colica intestinale. E qui, tra l’altro, la colica intestinale non è nemmeno del morto. Come pubblicare il De bello Gallico illustrato con disegni di Giulio Cesare mentre omaggia delle proprie terga l’annoso Nicomede di Bitinia. E lì, almeno, le terga sarebbero di Cesare. Pessima operazione come lo sarebbe dimostrare un periodo storico secondo una logica morale di un altro. Può solo confondere le idee a chi non ha, tra l’altro, almeno il gusto naturale per distinguere M.me Grès dal famolo strano. Sciamani come San Giorgio con l’estintore. Nell’eventuale eccentricità della haute couture – la alta consutura – di Balenciaga, oltre ad inarrivabilità irrealmente porte come raggiungibili c’era il segno, il cadere, il fiorire, il variare, il vestire e la vestibilità, linee e sbuffi, restringimenti e abbondanze, allungamenti e accorciature, sbiechi e a piombo, tracce, percorsi, proseguire e riferirsi a logiche rinvenibili e riapplicabili a modelli, nobili o comunque non dozzinali, di ogni epoca precedente snocciolata come la sezione aurea nell’insieme e nei dettagli con le matematiche sapienti e naturali e strutturali  insite nella genialità. Cosa che non avviene quando un bottone non architetta un tessuto come una fibula né lo umilia come un rammendo neorealista né rigenera l’estemporaneità e immediatezza di un cerotto post-village né lo impuntura col miraggio di un futuro interplanetario, quando un arruffio non è un panneggio, quando la sgualcitura non fa la toga, quando un pensiero non dà il la ad un periodo ma si accovaccia su umori correnti, quando chi è trattato da grande non sa o cavalca come un cavalluccio a dondolo non troiano l’onda del non sapere cosa farà da grande e scriverà un segmento di storia trapuntata dei crucci, delle ubbie, delle tragedie depilate di un periodo peloso come il lupo cattivo. Ciao, Pierpaolo, che avete discusso oggi con Il Gruppo Finanziario Tessile? Orli e imbastiture come monorotaie del moderno moralismo classico, il MET come il Sistema. Concept zip, post-mutandismo. Come il promuovere l’universale diritto dell’umanità a una crisi identitaria che ne avvolga di fumo le cause e il loro irrinunciabile inestinguibile incremento. Come una crisi di governo innescata da tronfi tartarini-tamburini di lega leggera telecomandati dai poteri forti pro loro sottomarine battaglie navali finanziarie. Come una mania, una compulsione, un tic, sintomi dilaganti, estranei al raffinato gusto della replica, ordinari come lo è l’attaccarsi sempre all’ultima parola detta, il rispondere sempre soltanto a se stessi. Come salvare il mondo con le nostre soluzioni emerse come Veneri da sotto la schiuma da barba dal barbiere. Come quando una rosa non è una rosa né un crisantemo ma gramigna… Ofelé ofelé.

Conosco giornaliste di moda provenienti da partenze impensabili per una giornalista di moda, soprattutto se nella sua vita laica precedente l’aver preso i voti non ha mai azzeccato una maglietta con un pantalone, un golfino con una gonna, in un nuotare a rana nel non stile dello strangolarsi in sciarpette arrotolate male al collo pur di evidenziare delle per lei presunte firme di pregio che al solo leggerne le prime sillabe si era investiti da una zaffata della tristezza delle fiere di carità. E via, nella sua conversione, una volta unta, a parlare di assoluta indiscutibile sacrosantità della moda fin nel suo ultimo orlo. Lo stesso vada per fotografi di moda che della moda non hanno mai avuto la percezione, nessun rapporto sensuale, e da laici vibravano più per il manico di una tazza da caffelatte che per un cadere bene di un taglio perfetto in un tailleur, un abito cocktail, un sera, un trapezio, una proporzione, l’equilibrio rarefatto di un eccesso, rimasti fotografi insensibili al capo, a vita, nonostante la ormai annosa pratica. In questa fucilata sparata a Balenciaga alla luce del consunto principio uccidi il padre e la madre, almeno il fotografo è sensibile al capo che fotografa; tant’è che lo sbugiarda e dispettosamente lo tinge delle tinte di un non rivendicato sacrosanto diritto della moda ad essere moda, lo accende di una spennellata che evidenzia il sapore di anelata anabasi, svela la pur sempre inspiegabile voglia di riscatto mascherata da libertà del sarto che nella veste del sarto si sente stretto, sprecato, come una studentessa di filosofia fra i tavoli della trattoria dove lavora per mantenersi agli studi, e rincorre la catarsi smandrakando, senza riuscire a sfondare la parete, attraverso un pretesto vecchio che odora della muffa del punk e di tutti i postumi di postismi moderni o avanguardistici che siano. Non è più la crisi della società, lo dicevo, è la crisi della sartoria. Lo slogan, che ronza come un nugolo di zanzaracce intorno a questo manifesto di rose colte e ricolte sfiorite e appassite e marcite canta la spudorata nenia erroneamente fatta passare per sussurrata delle buone cose di pessimo gusto. Quelle non sussurrano, urlano, hanno sempre urlato. E grazie al cielo, sono certo, il mio mal di testa non ha nulla a che fare con il gap cosmico della mancanza di senape in un giorno di neve.

Esiste anche la cultura del brutto che non collocherò territorialmente, che fa parte di gusti locali, di civiltà in cui l’eroe è magnificamente cattivo, le mamme muoiono e i bimbi s’arepijano cantando su un prato a strapiombo sulla felicità, esistono territori della storia in cui l’arte del disseminare di Medea ispira strategie di sopravvivenza vittoriose, esistono terre, mentali o no, dove si coltiva la bellezza dell’orrido  (vedi bruttezza del design francese in molta oggettistica Anni 30), per cultura, per estetiche etnogenetiche, ma anche lì, se si lancia un ponte ad attraversare uno stretto, lo si vede arrivare sull’altra sponda, in un qualche accidenti di altra parte; più riscontrabile fisicamente che concettualmente, quando si tratta di robe. O anche no, ma allora si tratta d’altro. La professione della signora Warren era inequivocabile, come la quadratura del cerchio. Lo schiavismo della libertà. La meravigliosa pasticceria di Trieste, dove le commesse in guanti bianchi armate di pinze asburgiche servivano mignon microscopici sulle trine di piattini di porcellana. Il mio cuore che da sempre palpita per il catalogo Black & Decker ne usciva diabetico. Che poi va bene tutto, invece, come è anche sacrosanto tutto il contrario di tutto quello che ho detto fin qui. Viva le pitture rupestri del Borneo e viva Rembrandt, Vasarely e la moka, Narnia e Narni, i misteri eleusini e il quesito con la Susy, Icaro e lo skateboard, Policleto e il silicone. Viva la sperimentazione viva , viva l’Avanguardia, quella vera, quella approssimativa e perfino quella scaltra, viva lo slancio verso qualsiasi direzione che colga ‘ndo colga come un Nostòs nella buriana, in un tifone e in bonacce da vertigine, viva le Veneri e le veneree da Factory, viva il pistone ovale nel cilindro zigzagato, viva, Viva, VIVA! Ma, una precisazione che mi preme davvero: di diabete, è poi morta l’orrenda Mary Poppins?

Cristóbal Balenciaga Cocoon coat 1957

 

Alberta Tiburzi in Envelope Dress by Cristóbal Balenciaga  – Hiro  1967 June Harper Bazaar
Balenciaga                                      fall-winter 2017-2028

 

Aprile 19,  2020

FOTTUTI ORDINARI IMMALEDETTITI

Ed eccoci, alla fermata attuale del viaggio compiuto in millenni tra irrinunciabili, indispensabili sciamani, sacerdoti, pizie e fattucchiere, allora ed ora assimilatori accumulatori, insieme a piccoli e grandi segreti altrui, di piccoli e ingenti capitali, di fondi  serviti, che servono e serviranno a finanziare giuste ed inique cause, in una realtà  al soldo di una ragione economica a cui e in cui si è inevitabilmente convertita, e può non essere un azzardo dire rivelandosi nella sua fondamentale natura, la ragione dell’umanità. Ed eccoci al nostro punto sul segmento valutabile più o meno lungo di un’attendibile storia tracciata, dopo millenni di intermediari dei molti Dio, unificati, in ogni epoca, ad occorrenza, nel dio Denaro. Eccoci, inclusi ed esclusi, alle indulgenze, pur rinascimentali e scintilla della riforma dopo le relativamente recenti immani filosofie medievali, dopo la cercata e con forza voluta interiorizzazione e spiritualizzazione del peccato, dopo la conversione della confessione da collettiva in individuale, la valutazione del peccato (considerata da Le Goff ne “La borsa e la vita”) modellata sui parametri personalizzati che possono giustificare l’errore del penitente: situazione familiare, sociale, professionale, circostanze e motivazione del peccato. Il confessore deve raccogliere l’ammissione di colpa, il pentimento del peccatore: deve mondarlo, più che punirlo. E’ l’aggiornamento dell’intermediarietà sacerdotale, un’acquisizione dati in modalità auricolare, adesso, da bocca a orecchio, nella pratica della confessione che nel 1512 il IV Concilio Lateranense stabilisce obbligatoria almeno una volta all’anno, a Pasqua. Non oracoli, non pizie: confessori,  più che meno in funzione orientata, intermediari acquisitori di dati fusi piombati in archivi la cui non divulgazione è garantita protetta dal segreto della confessione;  bureau, service. Intermediari della necessità dei quali siamo sempre stati per natura misteriosamente convinti e, sapientemente, apertamente o subliminalmente stati  convinti. Intermediari che sempre,  nella storia dell’uomo, in ogni epoca, funzione e collocazione, sulla base di un rapporto verticale con un punto di riferimento di cui ha bisogno l’essere umano per fuggire la paura, identificare il bene, sono stati e si sono offerti ed imposti, portatori di autorevolezza o di ieraticità, come sovente di ghigno; intermediarietà ferina o spudorata astrale, che poi in una grande epoca di ricerca profonda, determinata e convulsa della luce si fa fiamma gotica,  esattamente allusiva, intermediarietà che, pur destinata ad attraversare epoche che partoriscono utopia e riforma e ad oltrepassarle, si pone e mantiene minacciosa, grifagna come gargolle cheratoconiche indagatrici, le gole contratte nello sprofondo delle loro bocche spalancate, sulle punte delle loro lingue biforcute, nelle loro simbolicità. Salvezza offerta e cercata che si deforma nel suo significato attraccando secondo necessità a sempre nuovi approdi, fino ai moli dove adesso si arriva già crocefissi, le braccia spalancate, pronti per la scansione, bersagli centrati offerti a un occhio che vogliamo essere certi ci guardi, nudi, confessati, offerti, immolati a una qualsiasi incandescente pupilla ipnotica di un qualsiasi led, di un qualsiasi occhio-taccuino che sia ON, insuperabile nell’acquisire e  riporre ordinatamente, aggiornatamente, schematicamente i suoi te in un archivio subdolo ma non tanto, commercialmente utile ma non poco, nell’eternità di un assoluto economico: causa universale alla quale viene sacrificato e si sacrifica l’individuo senza causa nell’annientamento della sua insacrificabilità. Pupille incandescenti gelidamente interessate in un gioco voyeristico di totale indifferenza per ogni centimetro che dell’individuo comunemente scannerizzato non caratterizzi il suo potenziale apporto al consumo, a vantaggio e a carico di una società che dell’acquisizione dati ha fatto il proprio portierato e del quale è portiera in un linguaggio di scambio prostituente e intenso quanto una verità emersa in portineria. Non sappiamo più rinunciare ad affacciarci alla concierge,  penzolare ridicoli alla finestrella della guardiola, così volentieri fottuti, ordinari immaledettiti,  spacciati dall’ambizione di incuriosire.

Pier Paolo Pasolini 5 marzo 1922 – 2 novembre 1975 

Ricordo la notizia, forse in radio forse alla televisione, quella tarda mattina di pioggia battente al risveglio a casa di non ricordo chi, a un piano alto di un caseggiato di Montesacro, in una Roma apparentemente o forse realmente sempre indifferente a tutto che quella mattina parve interamente diventata orfana o almeno così mi è sempre sembrato fino ai primi dubbi di adesso dovuti a quanto diventino inverosimili le sensazioni e i ricordi eccezionali quando la distanza nel tempo lavora a farli apparire non credibili e non certi per la loro assolutamente nitida precisione emozionale. 
Molto moderatamente credo che Pasolini per un qualche motivo ancora sempre solo a lui tanto chiaro prima che a chiunque altro ci adotterebbe adesso che altrettanto evidentemente da così tanto tempo non siamo certamente suoi figli. Riposiamo pure in pace.  (2 novembre 2018)

 

MARZO 31,  2020

LA FIAMMA DELLA VANITÀ

Salvini, come avviene agli aspiranti plenipoteristi (senza corrispondere le reali capacità tecniche di risolvere i problemi socio-economici) è ormai talmente divorato dal rogo della Vanità che pur di affermarsi come primo ballerino farebbe anche il coreografo che non è in grado di fare. Non ci sarebbe da stupirsi se anche dichiarasse guerra all’Abissinia, al Tavoliere delle Puglie, a un formichiere dello zoo di Lipsia, agli avi dei Mau Mau e a un discendente a caso di un ramo a caso dei Borbone. Nella maniera più speculativa e meno nobile, guadagnandosi la solita pole position nel rivelare grandi verità a tutti drammaticamente già note e parzialmente già pagate e seriamente considerate e poste come realtà da affrontare, parla adesso, come sempre, non tuffandosi e riemergendo nel porsi un problema e nuotando in una sua soluzione degna della evoluzione umana ma anche questa volta galleggiando sulla superficie dell’effetto di una parola: stavolta è fame… una parola che la gente capisce bene anche se in lui è solo retorica, moralismo diffamatorio di ogni potenziale dignità dei cittadini, che specula su una terribile seria minaccia. Una condizione incombente, molto probabilmente, se non sicuramente, inevitabilmente capillare e futura, che invece per molti si è anche giâ precocemente avviata sulla la via della scontentezza sul propulsore del non avere il caciocavallo, la grigliata in piazzetta, quella salsiccetta  che piace tanto al pupo; che probabilmente diventerà presto un Salvini Ci Salverà mentre per marito, zio,  cugino o ganzo si profilerà il rischio cassa integrazione o licenziamento, tanto per minimizzare (conosco giovani carpentieri, promossi di categoria a luglio, per i quali il rischio si è già profilato). E intanto non si è capaci di chiarire a coloro che capiscono solo il linguaggio della retrività, in termini popolarmente esplicativi come quelli cui lui ricorre con l’ovvietà non banale dell’astuzia, quanto Salvini non sappia fare altro se non stare all’opposizione come tutte le opposizioni non sacre e mai sante anche quando sarebbero state nelle condizioni di poter governare. Salvini cavalca l’esaltazione senza avere competenze tecniche per affrontare i problemi che sbandiera in un mulinello, specialmente adesso, di incitamenti da guerra civile. Esattamente come l’esercito dei capaci non di pensieri ma di slogan e retoriche d’artificio: un esercito che di continuo si sparpaglia e si ricostituisce nell’addensarsi o diradarsi delle zone più facilmente navigabili sulle macchie d’olio del pericolo. E lui e i simili che rappresenta, si esaltano delle vibrazioni che dà loro la paura adrenalinica delle responsabilità: paura che sotto sotto hanno e li fa vibrare emozionandoli fino a portarli a fremere e tremarne davvero, come un giocatore smandruppato di roulette trema per il rosso e il nero. E quando quella loro paura raggiunge temperature da fusione, la trasformano nelle paure più retrive con le quali fanno leva e accoliti, e al governo ci vogliono andare per ciò che ormai realmente li divora e ci divorerà: la loro sacra fiamma della vanità. Come successe con l’Impero e meraviglie a seguire.

MARZO 31, 2020

ITALIA MAGNIFICO QUARTIERE RESIDENZIALE,                                                      NON PERIFERIA D’EUROPA

talia è uno dei più bei quartieri residenziali d’Europa, mi guardo dal dire il più bello per evitare enfasi e nazionalismi che è bene lasciamo ad altri, in ogni loro forma. Nessuna delle quali forme, però, deve sfiorare la pur minima idea che Italia, come ogni altro Paese europeo in eurozona o no, sia periferia economica. Oggi (lunedì 30 marzo), a quanto pare, Macron ha cambiato direzione di marcia: dalla posizione di complice di nefandezze come i meccanismi economici penalizzanti il nostro Paese, è passato ad altra a sostegno di Italia e Spagna. Bene, sarebbe rassicurante, per quello che può rassicurare; perché resta sempre chiuso, ma tremendamente maleodorante, l’armadio con dentro i brandelli di come gli über alles cucinarono la Grecia affibbiandole anche carichi che in realtà erano serviti a pagare i debiti della Francia. O sbaglio? E se non sbaglio, non esiste un tribunale atto ad appurare responsabilità e manovratori e condannare per crimini come quello? Ma con ergastoli veri. All’interno dell’eurozona, non al largo di Utopia o dell’arcipelago promesse dove magari governerebbe il solito immancabile scellerato che cavalca la determinazione più dozzinalmente retrograda e le sciagure a propria propaganda.

 

MARZO 12, 2020

Il Bello Della Diretta o l’Asse Di Variazione

Asse di variazione – da panico per coronavirus a terrore panico del crollo dell’economia. Enormità di un problema. Palazzo Chigi, diretta streaming 11 marzo 2020. Non remota l’impressione che il governo Conte (forse come avrebbe fatto qualsiasi altro governo) nel rimettere la questione alla coscienza di altri liberi di decidere, a loro discrezione, in merito, si sia un po’ lavato le mani (eufemismo) dalla responsabilità di stabilire precise disposizioni (chiusure) a tutela della salute di chi lavora nelle industrie: operai. E con loro, gli altri lavoratori che, in grande parte dei settori, sono impegnati in attività per le modalità ed esigenze delle quali non possono evitare il gomito a gomito, il contatto ravvicinato tra loro o con attrezzi e materiali trattati in comune. E nella stragrande maggioranza, lavorano nella stessa fabbrica, cantiere, industria, in una pendolarità da diversi comuni, spesso significativamente distanti tra loro e dal luogo di lavoro (e qui si apre il fuoco d’artificio, dai contorni simili al sorriso di un emjoi, del modulo di autocertificazione personale, conditio sine qua non). Paura del Sistema? (urlo della folla: “Sììììì”). Ancora a chiedere al Sistema di essere super partes? Come chiedere ad un daltonico di preparare una mazzetta colori. Il problema, grosso, multilama a centomila tagli, è rimasto, rimane da affrontare.  Certo, se il governo Conte avesse disposto responsabilmente anche la chiusura immediata delle “fabbriche” avrebbe esplicitamente automaticamente incluso anche il settore tra quelli aventi diritto a nuovi “interventi di sostegno” stabiliti da parte dello Stato. Un botto! Da far saltare in aria i tombini di tutto lo Stivale. Un po’ troppo anche per i governi di buona volontà, certo. Troppe fette per una torta sola. E piccola nonostante l’orgoglio del Premier nello scandire ven-ti-cin-que-mi-liar-di. E la cerimonia non si svolgerebbe a Cana. Questo matrimonio non s’ha da fare?  Intanto sta, è stato già, ad alcuni Consigli di fabbrica nelle aree soprattuto del medio-grande indotto decidere per l’unica soluzione al momento attuabile: diradare la presenza di lavoratori invitandoli a consumare l’ammontare di ferie maturate e finora non godute. Insomma, godetevi ‘ste vacanze. Fino al 25 marzo. Trionfo dell’ottimismo sotto il mantello della prevedibilità e dell’apparente momentaneo “così non si fa male nessuno”. Poi, al primo starnuto di uno, la cassa integrazione per gli altri? Avremo un altro esempio di buona amministrazione? “Anche la Speme, | ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve | Tutte cose l’obblio nella sua notte“.  “Via dai pazzi sepolcri”, almeno per l’espace d’une nuit, è sembrata la quasi commossa chiosa della diretta, nello sguardo del Primus inter pares da estenuato “non solo al comando” dopo una prova tutta corsa “al gancio” in attesa del bacetto della miss all’arrivo di tappa. Ma sì, ce l’hanno messa tutta, basta col pensiero che ci hanno provato un’altra volta. E anche noi spegniamo la luce e ci mettiamo su un fianco, a dimenticare, anche noi, almeno per lo spazio di un sonno. Senonché, ecco che si riaccende la lampadina di Eta Beta, già mezzo assopiti sgranocchiamo una pallina di naftalina sempre pronta sul comodino e, flàafff, prende luce la pretesa, il sospetto, legittimo, da figlio del Paese, che ai governi non spetti mai il diritto, anche per una sola notte, a sonni tranquilli. Ed ecco il turbinare di pensieri, eccoci vagare sulle dune del calcolo delle possibilità, persi nel ronzio del cervello che vibra a prender la mira sperando immodestamente in un centro nel bersaglio caleidoscopico delle questioni. Potrà più il veloce crollo della caramella da banco o la lenta agonia dei figli dell’Industria Pesante? Scialuppe a mare. Prima le donne e i bambini? Prima i più utili? Diamoci una risposta, mille, mille e una, in un adesso ormai solo ipotetico acceso e in tempi felici non lontani sempre tanto ambito dibattito dal barbiere;  di quelli nei quali nel breve spazio lasciato alle questioni di fondo smosse dalle prese di coscienza del sabato pomeriggio, tra una barba, un baffo e un taglio doppio risolvevamo in un pluff e in un  plaff problemi nazionali ed esteri, col filtro e senza, uno di quei dibattiti ai quali per molto tempo,  pare, non potremo più dar vita.  E intanto, lasciatemi l’impressione che se chiederemo che le nostre vite superino in importanza l’economica ragione, beh, vorrà dire che fin lì avremo avuto come guida la Cieca di Sorrento. E la domanda che mi faccio e che mi toglie la pace che invece cercherei anch’io, chiudendo, è “sì, ma allora tu che faresti?”.

LUGLIO 18, 2018

Nuova Ciminiera – Il corsivo di Lele Cerri – L’ATOMO, QUESTO CONOSCUTO

http://www.nuovaciminiera.it/2018/07/18/il-corsivo-di-lele-cerri-latomo-questo-conosciuto/

“Mercuzio si accascia al suolo in un tripudio di velluti e ghinee nella speranza che il suo amico Romeo sappia, nei giorni a venire, vestire con ironia tutte le mises che lui gli lascerà” . E che diamine!, diamo a Shakespeare quel che è di Shakespeare. Se non mi trovo di fronte ad un falso clamoroso, secondo il prezioso incunabolo dal quale ho attinto il periodo testé sopra trascritto, con questa frase, lo smargiasso autore elisabettiano  avrebbe, in una delle prime stesure, dopo tutto quel noioso polemicare e fiorir di lame, congedato Mercuzio nel momento del di lui trapasso. E allora rientrerebbero tra i classici anche i titoli che ci tramandano la forza dell’indagine sociologico-antropologica con la quale una giornalista di Repubblica, in occasione dell’ultima kermesse Milano-Moda-Uomo, a forza di “l’uomo di Cucibellotrallallero veste con ironia” e altri titoli così, aprendosi sulla testa, come un uovo sul mucchio della farina per le tagliatelle, il trattatello Pirandelliano al proposito,  ci rassicura che, come si è potuto vedere a Milano in tempo di sfilate, da una collezione all’altra “va di moda l’intellettuale”. E nella mente, mi riappare, nel fascio di luce di questa garanzia, un dimenticato anticipatore di questo tipo di convinzioni che sbrogliano l’annosa matassa di congetture sul concetto di “essere o divenire”, ovvero quello che tutti credevamo il più cretino degli attori teatrali italiani che ci prometteva meraviglie col suo puntuale “vedrete!, quando sarò diventato un genio…”.

 

E dunque,  tutti tranquilli, adesso, quanti si preoccupavano dell’imbufalimento delle linee di pensiero!,  si rassicurino quanti temevano il dilagare del demenzial coatto: che nelle sue punte massime, tra l’altro, lo giuro, mi piace pure. Stiano tranquilli quanti vivevano terrorizzati dalla presunta caducità del pensiero esistenziale di questi giorni! Ormai  è accertata la soluzione al problema: un paio di culotte un po’ così, due giri manica comme il faut, un orlo qua e un altro là, una marsina color zafferano e un bavero color ciclamino ed eccolo qua, il nuovo intellettuale all brand new, nuovo di zecca, non più solamente sulla rotta Lodi-Milano né solamente con la bella Gigogín, ma sprofondato in una poltrona business class sul jet Milano-Parigi-Londra-New York pagata con i frutti del fluire del suo pensiero che sgorgando da stivaletti pitòn-orsetto, cappellini avant-retró, polsini d’Artagnan-Kundera sciorina meraviglie mentr’ il s’en va, sottobraccio a chi sapremo poi chi, da un party internazionale all’altro in sella alla stessa ironia della quale si ammantava nelle passerelle milanesi del pret à porter  proprio come Buffalo Bill stava a cavallo di un caval!

 

Non sono riuscito a capire una cosa, però, e ancora cerco, mi domando: è vero che in questo periodo ci si può anche chiedere se hanno fatto più vittime gli olocausti di tutte le epoche, passate e presenti,  in tutto il mondo, o l’imbufalimento delle moltitudini che ciclicamente ha davastato le società che, come fenici goethiane, sono poi rinate dalle loro ceneri per migliorarsi, progredire nonostante tutto?

 

Oh, come avrei voluto, già allora, che Pasolini, dopo essersi ben benino organizzato l’intuizione, la visione anticipata del peggio che inevitabilmente sarebbe dovuto accadere, fosse riuscito a prevedere, scorgere lontani e indicarci sia pure larvatamente,  anche gli esiti della rinascita che dovrà esserci, che forse, quasi sicuramente, dopo questo periodo che si abbuia che ci è stato dato da vivere, noi non vedremo ma  ci sarà; e anche se, pure, ci sarà dato, almeno, intravederla, forse faticheremo a penetrarla perché sarà sicuramente diversa, dal nostro vivere, nella grammatica e nella sintassi dell’esistenza. Una rinascita che dovrà esserci, però, caro amico della Guadalupa che mi hai scritto quella deliziosa letterina nella quale mi chiedi se ho qualche palandrana patchwork o redingote regimental-guerra-sul golfo-ma scherzosa-tanto ironica dismessa da mandarti, se non vorremo ritrovarci come Zira e gli altri a guardare i resti della statua della Libertà su una spiaggia del pianeta delle scimmie.

 

Per mantenere una parvenza di ironia, a volte, comicamente mi infilo i miei vestiti rivoluzionari pieni di acari delle epoche recenti, e con indosso quegli attestati di impegno ed intelligenza, quelle barricate tra me e i sogni chiamati utopia di una realtà che non saprò mai capire se si sia almeno in parte realizzata, mi siedo sullo scoglio dove si sedeva lo scemo del mio paese col quale sono cresciuto e guardo lontano come lui e forse, dimenticandolo subito, vedo quello che vedeva lui. E così, nell’attimo di pausa tra uno sciabordio e l’altro delle onde, vigliaccamente fuori da ogni responsabilità, mi sento il diritto di chiedermi, velocemente, già pronto alla fuga da una risposta, se mai ci fosse, se mai ci sarà, se ha fatto più vittime la produzione di acciaio per cannoni o il dono delle fedi alla Patria. Poi, mi guardo il giro manica, il collo del giaccone un po’ buttato lì, le toppe di velluto sui ginocchi dei pantaloni di cavalry, il polsino di cachemere-shetland che si abbandona debosciato sfilacciandosi verso le dita e mi dico: “cretino!, baciati, stupido! E smettila di fare tutta quest’ironia!”

E certo! Prendiamola sul serio questa bilancia dei pagamenti! Entro nel bar del porto dove nelle loro tute al contempo selvagge e ironiche, con i saldatori che come indicatori stradali sbucano dai tasconi sulle cosce, sono tutti così up-to-date, à-la`page, come si diceva prima anche nelle famiglie aristocratiche russe. Mi rallegra il profumo del caffè, dilagante, e col procedere del mio delirio mi tormenta la martellante ingiustificata domanda: “Ma chi tira avanti il Paese, allora? I munti? I mungitori?”.  E se non avessi il cuore rimpicciolito dalla paura di distoglierla, così, da una sfolgorante carriera di modella, proporrei: la mucca di Vipiteno al governo!

 

Nuova Ciminiera – Il corsivo di Lele Cerri – IL MANGIADISCHI

Lele Cerri

Chi, tra quanti di noi erano stati a Roma in gita scolastica o avevano visto al cinema in un pomeriggio odoroso di caloriferi e pavimento di legno umido di impronte di suole bagnate Vacanze romane con il Gregory Peck che con la disinvoltura di una stalagmite di legno faceva lo scherzo della mano mangiata ad un’atterrita Hepburn portata in Vespa alla bocca della verità a  Santa Maria in Cosmedin,  sotto sotto, dentro dentro, tra sé e sé, non sognava, oh sì che lo sognava!, che nell’infilarci un disco della Connie Francis – e via giù a ridere col suo “g’è… quaccuno…” -, di Pat Boone o Celentano piccolo o di Paul Anka o Nat King Cole o Serenadedella Sarah Vaughan o la zebra a pois nel disco rigatissimo della Mina o Cry ancora di Johnny Ray o Hotta, hotta chocccolatta di chi si ricorda più chi ma ascoltata per ore e ore di seguito fino allo straveggolamento, o Just a dream just a dream mi sembra di Frankie Avalon e Just in time di Nat King Cole e Answer me di Frankie Lane e Magic moment di Perry Como e poi le pere mature e i pullover e i barattoli e le gatte dei neonati cantautori italiani, il mangiadischi, sdentato come una prozia ma vorace come un cugino grasso e bulimico, gli azzannase la mano? Se qualcuno mi giurasse il contrario non gli crederei, non potrei rassegnarmi all’idea, non sopporterei di appartenere ad una generazione così poco visionaria. Accessorio prevalentemente delle giovani fanciulle in musica, macchinetta per me irrinunciabile per la mia necessità di ascoltare ovunque e sempre la musica che mi piaceva e complice a pile di quel certo che di transilvanico dei maschietti che è poi maturato nelle tre o quattro mezze generazioni che ci hanno seguito e che, sono certo, in noi era in embrione, nascosto tra le pieghe di un osare appena un ciuffo qua e là, una brevità del pantalone a sigaretta a scoprire i calzettoni bianchi in quegli anni più alla Presley che alla Gene Kelly che aveva da pochissimo fatto luogo al bacino più rappresentativo del globo rientrando in quinta tiptappando ormai inevitabilmente a ritmo di rock, il mangiadischi – che il moderno ragazzo predark che sono sicuro fosse in molti di noi intravedeva carnivoro – mentuto e di buon palato si mangiava ogni apposita ciambella infilassimo in quella bocca tanto generosa di suoni quanto, per fortuna di tutti, decisamente, assolutamente, tecnicamente discreta, silente su tutto ciò di cui lui,  grande divoratore, instancabile azzeratore di pile torcia non ancora a lunga durata,  era testimone: colpe tremende! : evasioni musicali in ore di studio, camporelle tra il lusco e il brusco con rischio di rivelatrici, autoadesive, traditrici tracce vaccine sul retro di impermeabili, kilt scozzesi, sottanine plissé, jeans con il risvoltone e i primi panta- gabardina da ragazzo grande, completini twin set di orlon da ragazze della porta accanto ma scicchine e giubbottini di renna da quel che più tardi si sarebbe chiamato fighetto, giuramenti di eterno amore vista golfo, vista lago, vista lungofiume, vista valle o anche vista piazza della stazione o delle poste o vista cortile della casa dell’amica che ospitava l’incontro galeotto alla poveri ma belli fra te e la sorella del tuo migliore amico che in un altro incontro galeotto si giurava lo stesso amore con tua sorella al suono di un altro mangiadischi a casa di un’ altra amica compiacente anche lei e anche lei con cameretta vista sul cortile condominiale con tanto di agave e palma e pitosforo e vasca dei pesci e cagnetto, della portiera signora Guglielma, che come uscivi in bicicletta per riportarti a casa il tuo album di 45 giri con la maniglia infilata al manubrio o appoggiata al fanale, ti azzannava l’orlo dei pantaloni anche loro più alla Presley che alla Gene Kelly sempre per il solito motivo della recente abdicazione dell’uno danzatore acrobata in favore dell’altro vocalista oscillatore.

In una gita terra-mare-isole-terra che la Bruna ha poi sempre ricordato come pic nic nonostante avessimo pranzato a branzini e cacciucchi in uno  dei migliori ristoranti della costa toscana, il mio mangiadischi, verde come le  tappezzerie delle littorine, si intossicò a suon di “è mezzanotte, anzi lo era, tra un bacio e l’altro ormai rintoccano le due….” che il nostro Caronte e San Cristoforo, babbo della Bruna stessa, si era portato dietro in macchina in un cofanetto che conteneva in più cialde “tutto il meglio di…”. E mi sembrò di sentirlo tirare un sospiro di sollievo come se gli avessi infilato in bocca una Valda quando, tornati a casa, gli sparai dentro, come un antidoto, For all we know di Billie Holiday. Mi parve di vederlo, anzi, a un tratto lo vidi proprio, partire al galoppo tra praterie di lucente, altissimo e per quella nostra età recepibile ma indecifrabile fatale dolore, abbeverarsi a un ruscello di luce cosmica, planare sulla cresta di una distesa di speranze umane panneggiate sulle inflessioni di quella voce e tendermi una cinghia per ringraziarmi di aver percepito che anche i mangiadischi avevano un’anima che si nutriva di quello che altre anime emanavano cantando. Poco più tardi, quando mi risvegliai giusto in tempo per infilarmi nel letto, mi resi conto che avevo fatto né più né meno come Dorothy anche se, invece della lunga strada gialla per Oz, avevo infilato, per un’oretta, quella che portava al cuore dei mangiadischi. Ma ormai, per me, il mangiadischi il cuore ce l’aveva davvero, e doveva essere il mio a rappresentarlo, a scegliere per lui. Una delle mie prime responsabilità. Da allora non gli feci più mancare niente di tutto ciò che di variatamente appetitoso si trovava in 45 giri. Quasi volessi educarlo sentimentalmente. Come se farlo mi facesse sentire la coscienza a posto nei suoi confronti. E Banana boat di Belafonte, che aveva già qualche annetto ma a quell’epoca i pezzi rimanevano giovani e nelle classifiche d’ascolto per anni e anni, era, per il mangiadischi, con Patricia e gli altri stuzzicanti mambo di Perez Prado o i latini ancheggianti-un po’ tradotti-universalizzati di Trini Lopez, una specie di scampagnata con mangiare al sacco ma con varietà di sapori allegri e ringalluzzenti.

Compagno inseparabile di viaggi a corto e medio raggio, il mio mangiadischi lo tradii di brutto quando me ne partii per Londra, sedicenne, con tutto il bagaglio spedito “appresso” per comodità, il passaporto in tasca, con a tracolla il mio Teppaz foderato scozzese, doppio altoparlante interno-esterno sul coperchio a simulare un’intenzione stereo, un po’ più fedele riproduttore di alti e bassi del povero tradito e lasciato a casa;  e soprattutto capace di accogliere sul suo piatto, sia pure con dimensioni da portatile, i 33 giri di Ellington e Basie e quelli di Dakota Staton che mio zio mi aveva portato da New York perché in Italia non si trovavano e della Mina che aveva già cantato anche Summer time che nella bocca sia pure a ciabatta sformata del mangiadischi non potevano trovare accoglienza e che avevo deciso avrebbero dovuto essere i miei compagni d’avventura in terra d’Albione; dove appoggiai piede dopo che, totalmente libero dai miei bagagli, non appena imbarcato sul traghetto, che all’epoca era una navona nera con fumaiolo giallastro burro marcio e scialuppe grigiastre da “Cartulina ‘e napule”, mi ero ritrovato a reggere per tutta la traversata della Manica quelli di una giovane moglie di Enna che – con tre figli di tutte le età possibili, anche loro da reggere mentre il mare, quel giorno sull’euforico, ci constringeva ad un samba indesiderato, e una mezza dozzina tra pacchi e valigioni  pure loro di ogni misura possibile legati con lo spago – andava a raggiungere il marito a Glasgow. In quell’inverno londinese, mentre ascoltavo Awfull sad di Ellington e Nuie di Mina accanto al caminetto con il fuoco a gas di camera mia nel mini-flat nella Mansion piena di studenti non ancora hippies né intillimanici o tantomeno rasta di Lancaster Gate dove in inglese una mattina leggemmo chissà cosa del crollo di Kruscev, mi ritrovai spesso a sperare che la Marghe, alla quale avevo lasciato il mio mangiadischi, lo nutrisse come era stato abituato. Quando tornai, fu per me un’anticipazione di par condicio riassicurargli la partecipazione ai nostri momenti quali che fossero: agli alti o ai bassi delle esplosive, fulminanti e fulminee scoperte ed esplosioni sentimentali, ai dopocena d’inverno nel garage riscaldatissimo della casa del Ciccio durante i quali sognavamo di diventare, crescendo, un po’ debosciatelli, un po’ rive gauche,  perdutini quel tanto che credevamo ci avrebbe evitato di conoscere la noia. Fu con noi, quella specie di portadentiere canoro, a suonare le più varie, appoggiato su un barile di catrame col coperchio tutto svirgolato, anche nei giorni della scoperta del fai da te quando, armati di attrezzi fino ai capelli a spazzola, passammo tre settimane a sverniciare la barcona in disfacimento del babbo del Gianugo da noi messa ai restauri rovesciata sull’aia della casa di campagna tra i vagheggiamenti e una di giorno in giorno lievitante lista di dettagli su una futura crociera estiva sottocosta che si incagliò nell’incepparsi del restauro ai primi sgretolamenti delle prime tavole del fasciame alle prime piogge di aprile. Ma quell’estate, il mio ormai nostro mangiadischi se la visse alla grande lo stesso. Sempre con noi. Come cretini passavamo nottate abbivaccati e sonnecchianti tra un sogno e l’altro distesi tra le rovine della Rocca Malaspina sul primo colle a un chilometro dal mare nero  e lucido là in fondo e Ray Charles cantava Georgia on my mind, se da mangiare al mangiadischi glielo dava la Giovanna, o, se a imboccarlo era quell’esagerato di Albertone, le poesie di Neruda o le canzoni della Laura Betti con i testi di Arbasino e Moravia che all’Andrea facevano esalare Dio, che palle!… mentre gli altri lo pensavano soltanto,  oppure Cry me a river con gli sfiatamenti avvolti nello chiffon verde acqua di Julie London o  il jazz moquettato di country di Peggy Lee che cantava Fever e Lover o le prepotenze di Sassy Vaughan che gli dava dentro come una matta con Perdido come se rincorresse un qualche pilota di una delle più esaltanti carrere messicane. In quelle notti, lui, il mio mangiadischi, fece in tempo a banchettare con L’ultima occasione e Era vivere di Mina che puntualmente, ogni sera, avremmo poi ricantato riscendendo piano piano sui tornanti della collina, afflosciati e stampati come decalcomanie sui sedili delle macchine, a notte fonda. Nelle più affettuose di quelle sere, tra quel che rimaneva dei pochi merli su quel che rimaneva delle torri e la luna, appariva sempre una nube a rendere più discreta la luce notturna su certi sogni giovanili ad occhi aperti quando il boccone era Billie Holiday che cantava What’s new?.  E, che cretini!, forse per l’effetto di un’indigestione di bellezza, ci sembrava che tutto, intorno, rispondesse.

 

The Square – il film di Ruben Östlund

The Square, un film per tutti.

 

Un po’ come quando a una proiezione di un film lappone in lingua originale qualcuno seduto dietro di te si dà a percettibili risatine e mugugna in maniera che tutti lo sentano a dimostrazione che capisce perfettamente il lappone ladakhi,  anzi, che è una lingua in cui scherza anche col gatto. Ecco, mi ha fatto quell’effetto la critica del New York Times: “da morire dalle risate”. Ci speravo anch’io, l’idea mi faceva gola. Tanto. Purtroppo, sono uscito vivissimo da un film che mi è sembrato bello al di là di sue momentanee involuzioni, autopunizioni o dicotomiche smaccate autoindulgenze. Perché, ancora purtroppo, a parte qualche rarissimo strappato sorriso, non ho mai avuto voglia, in nessuna scena, di ridere stronzamente, à la manière de, sulla rappresentazione della stronzaggine, nel gioco diffusamente ritenuto molto qualificante di cavalcare impalcature-sovrastrutture come fossero purosangue o come fossero l’impalpabile ultimo fiocco di cenere di quella fenice che è un presunto qualsivoglia talento pronto a risvegliarsi in noi, all’occorrenza, per premiarci come il fantasma di un antenato che ci ammanti di blasone, sul rettilineo d’arrivo di una corsa all’anabasi, anabasi!, a sottrarci alle conseguenze di ogni sprofondamento della nostra anima, di ognuna delle nostre toppate, grandi o grandissime che siano, alte o basse, senza farne adesso classificazioni di rango, oppure facendone, nei momenti fortunati in cui si possa ripartire da zero o poco più.  Eventualità, tutte, che investono anche il genio creatore protetto da Fortuna divina che si vuole facciano perdere meno a chi ha meno o nulla da perdere e, apparentemente e secondo alcuni gradi di valutazione, facciano perdere molto di più a chi ancora non ha perso niente di quello che fin lì si è strepitosamente aggiudicato.

Entro al cinema circondato da mormorii e disperazioni sull’insopportabile ricordo di un’Italia Svezia del giorno prima.
A rendere più acuti i dolori per subiti pallonetti, dribbling, barriere e corpi a corpo vari, allo spettatore sconsolato già devastato dalla già patita  perfidia della Svezia, in risposta alla preghiera “padre allontana da me questo calice, ma straziami ancora se serve a darci i nostri derby, andate, ritorni, coppe e targhe quotidiani”, è arrivato, come un ceffone dopo un mancamento,  The Square.

Ormai è fatta. Il film è finito, spalmato sulle facce di qualcuno visibilmente rititolato “Un tentato eccidio”. Mi avvio nel dondolio dei sopravvissuti. A guardarli brancolare verso l’uscita, The Square, più che un film, è stato un cecchino che ha smitragliato su corpi indifesi centrati in pieno nella luce dei fotogrammi che scorrevano sullo schermo come un nastro mitragliatore.

Corro scendendo a quattro a quattro i tre scalini all’uscita del cinema e, nudo a pelle di qualsiasi risollevante consolatorio aggancio calcistico, raggiungo quella che mi appare la più prostrata, disperata vittima della visione di The Square; miseramente lo aggredisco e gli propongo una più prossima a noi versione interpretativa:

Il film è un condominio con qua e là tratteggiato l’incubo di una simulazione di riunione condominiale in cui ci necessiti un nostro intervento in cerca di una soluzione: per noi elementi sociali in equilibrio incostante, per un nostro tubo che perde, per i problemi altrui che si manifestano come piaghe bibliche, con diffusa nel cuore un’istintiva antipatia nei confronti di un condomino del secondo piano per niente paragonabile all’insopportabilità ustionante dell’indifferenza degli occupanti l’attico che nemmeno ci salutano, nemmeno se centrati in pieno sul portone. E, ancor più,  l’incubo fino all’ultimo respiro, affollato di dettagli che si susseguono con la velocità di un serramanico,  stretti alla gola dall’affanno in un’ inevitabile e interminabile discesa dalle scale un giorno in cui l’ascensore è guasto, con in mano una  frusciante mazzetta non più furtiva ammollataci furtivamente nel ripostiglio del piano di sopra o con i pantaloni squarciati sul sedere, ed ecco sbocciare dalla fessura tra due scalini, al braccio del  marito, la signora alla quale giorni prima abbiamo fatto una quasi impercettibile quanto consapevole mano morta in ascensore; o è  la signora della pulizia scale ex proprietaria dell’appartamento che abbiano comprato all’asta? O la nuova Babele. O il nuovo Caos dopo anni di tentati Logos, o un fac-simile della sera di Sant’Ambrogio alla Scala. O un corteo di striscioni ‘Prima il concettuale o l’uovo di gallina?’, ‘Il jazz è una tenda a ossigeno‘, ‘Io sono mio‘, ‘A house is not a home‘, ‘Transenne all’Avanguardia‘. Un ricadersi in bocca, come a tratti fa il film per esemplificare. E via e via… Visto che è un film per tutti?

The Square – il film di Ruben Östlund

 

Ho visto un film bellissimo: La forma dell’acqua

The Shape of Water – La Forma dell’acqua.

Regia di Guillermo Del toro – Cast eccellente da Michael Shannon in là.

Magistrale uso insostituibile di tutti i luoghi comuni come mezzo per raccontare ed entrare in una realtà alla quale tutti vorrebbero o – assolvendosi completamente, lontani dalla consapevolezza di che altra pasta siano – credono di appartenere. E’ la solita inevitabile volatile libertà inevitabilmente fedele a tutti gli elementi che compongono la letteraria irrinunciabile visionarietà sudamericana.

La bellezza delle immagini, fotografia, scenografia, ambienti, cast perfetto, icone di un insieme perfettamente variamente iconico, più che propedeutici introduttivi potrebbero trarre in inganno, essere trabocchetti nei quali poter anche  cadere, nella delusione per il sospetto dipanarsi di una ormai banale letterarietà luogocomuneggiante se, come un naturale e puntuale colpo di scena, uno stato di grazia cinematografico non intervenisse al momento giusto ad allargare, illuminare, ossigenare il campo dei riferimenti alle storie sacre e fiabesche di ogni tempo e genere, all’universale sentire, essere e desiderare, così perfettamente riassunti. Fino a farci sentire di respirare diversamente, come forse respirano, durante e alla fine, le due creature del film.

Quando il cinema si fa letteratura cinematografica. Sapendo benissimo cosa vuole, da dove partire e con che cosa e a che cosa  arrivare .

Alla  condizione di un bieco sentirci spettatori portatori di un’anima eletta per il subdolo, presuntuoso, rapace e auto-assolutorio meccanismo dell’immedesimazione.

Con: Sally Hawkins, Michael Shannon, Michael Stuhlberg, Doug Jones

I SUICIDI DEL MONDO

Ogni tanto il mondo si suicida

Stiamo combattendo una guerra minacciosamente interminabile per una causa assurda e che in realtà non esiste e le cui vittime sono e saranno vittime di quella follia che quando da laica diventa istituzionale si veste di una sgargiante inaccettabilità dalla quale non la monda nemmeno la sua inverosimiglianza. Sarà strenuo mondare tutti i colpevoli dai loro peccati.  Come non meriterebbero, i colpevoli di peccati di cattiveria e di trasversale bontà verranno consegnati alla storia, assurgeranno al vanitoso ruolo di inquilino dell’eternità; ruolo per il quale hanno declinato quel senso di responsabilità e di consapevolezza che semplicemente si hanno o si dovrebbero avere , se non per altro, come semplici esseri parte di un’umanità che troppo sovente non comprendiamo o alla quale non ricordiamo di appartenere, una società della quale non abbiamo alcun senso, nessuna coscienza, come nemmeno abbiamo più coscienza dei nostri ricorrenti suicidi; e più nemmeno dei morti.

la battaglia degli eroi    lele cerri 1997

 

Nous menons une guerre qui semble déjà interminable pour une cause absurde qui en réalité n’existe pas et dont les victimes sont et seront victimes de cette folie qui, lorsque de laïque devient institutionnelle, s’habille voyante d’inacceptable dont même son invraisemblance ne la purifie pas. Il sera difficile de purifier tous les coupables de leurs péchés; comme ils ne le méritent pas, ils seront relégués à l’histoire, ils s’élèveront au rôle vaniteux de locataire d’éternité pour lequel ils ont décliné ce sens de la responsabilité et de la conscience, que l’on a simplement ou devrait avoir en tant que simples êtres faisant partie d’une humanité que trop souvent nous ne comprenons pas ou à laquelle, trop souvent, ne nous souvenons pas d’appartenir, dont nous n’avons pas le sens, aucune conscience, comme nous n’avons aucune des nos suicides récurrents; ni des morts.

We are fighting a menacingly  interminable war for an absurd cause which in reality does not exist and whose victims are and will be victims of that madness which, when from secular becomes institutional, takes on a flamboyant unacceptability from which not even its improbability will purify it. It will be strenuous to cleanse all the guilty from their sins; as they do not deserve, they will be consigned to history, they will rise to the foppish role of tenant of eternity for which they have declined that sense of responsibility and awareness that one simply has or should have as simple fragment of a humanity that too often we do not understand or to which we do not remember we belong, of which we have no sense, no consciences, as well we have none of our recurring suicides; nore of the dead anymore.

 

Una serata eccezionale. Ma veramente.

… tutti insieme e contenti, sabato sera alla Locanda del Gallo di Chianni; vegetariani , carnivori e onnivori, felici in un tripudio di carni meravigliose e zuppe alla contadina, pappe col pomodoro in versione invernale (segreto della casa) crostini di ogni tipo, con fegatini, con ragù o con  glassate di cipolle e verdure. E i tortelli di patate burro e salvia o al sugo di cinghiale, il cinghiale in umido più buono della stagione, tagliate e  bistecche da tagliare con la forchetta e via e via.. e libagioni con ottimo vino che solo il rispetto delle norme per il rientro ha mantenuto nei limiti… e il bacio finale dei dessert, tutti buoni, tutti belli, tutti speciali. Una serata davvero eccezionale. Ma veramente!

 

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