Billie Holiday vs. Billie Holiday

Gennaio 1949 – La stampa scriveva: “Fermata per possesso di oppio, Billie Holiday si presenta alla Corte in visone selvaggio da 7.000 dollari e tailleur con colletto nero”.

CHE FOSSE tossica mi fa incazzare come poche cose al mondo; non riesco a vederla in nessun altro modo, la trovo una dolorosissima enorme tragica cazzata. Ma che la lasciassero anche un po’ in pace! Lei era uno spirito libero, si potrebbe anche dire piuttosto infantile, primitivo. E quella stradannata vita era la sua. Alla fine dei conti, tutto il male che può aver sempre fatto, l’ha sempre merdosamente fatto a sé stessa. Lei era molto più innocente di tante autorevoli figure officiali che il male lo spargevano in giro. In questa foto dell’articolo, vista la circostanza, è molto bella così sdegnosa ed altera. Certo, lei gli uomini se li cercava tra i peggiori. Il dato certo e incancellabile è che a rappresentarla, in qualsiasi modo possa essersi rappresentata, a rappresentarla potrà esserci soltanto, e sempre ci sarà, Billie Holiday.

THE FACT THAT SHE WAS a drugs addict pisses me off like few things in the world. I can’t think of it any other way, I find it a huge tragic interminable bullshit, I find it a very painful bullshit. But I mean… they would have left her alone too! She was a free spirit, we could say maybe quite primitive, and that damned life was hers. In conclusion, all the harm she may have done she has always shittily done to herself. She was much more innocent than many authoritative official figures. In this photo, given the circumstance, she is very beautiful, disdainful and haughty. However, the fact remains that she really looked for men at their worst. The final certainty is that, in whatever way she may have represented herself, the only one who can represent her essence now and ever will be Billie Holiday.

CATTIVERIE CON LINGUACCE il film della Signora Sharrock.

Arieccoce. Cenerentola, la storia, stavolta minuscola, corre al pozzo, porta acqua perché si lavino bene bene i pavimenti documentali su cui poggia e vengano ben benino lucidati per farcela danzare sopra nei suoi nuovi panni di vicenda, non più in abito da sera né in celluloide, aggIornata nei fatti quanto nella sua contemporaneità digitale, quasi fantasy, di certo politically correct, per blu, e su una pretestuale vicenda di Cronaca non troppo minuscola ma maiuscolizzata, viene sbattuta in cronaca pagina pagina, pagina, pagina. E come in tutte le cenerentolate a seguire la prima incocchiata dalla Signora BidibiBodibi Bu, il cocchio di zucca ha raggiunto ormai l’evoluzione dell’hybrid, un colpo al cerchio, un altro al tino, l’importante è che la storia che si vuole raccontare calzi al tempo in cui viene goduta, sia funzionale alle regole dello spedire e ricevere un messaggio, partendo in qualche modo già datata, perché legata ai e dai dettagli aggiunti, alle specifiche considerazioni e ambientazioni sociali antropologiche civili politiche galateistiche del nuovo momento in cui la si racconta.

Inglesi attori bravissimi nati dalla schiuma di una tradizione attoriale dalla quale sono emerse e continuano ad emergere tutte quelle primavere un po’ stantie di classicità e la cui genialità non ha mai portato e tuttora non porta un alito di freschezza ma agevola un importante profondo respiro.

La scelta del caso è la macchietta, il macchiettismo che a volte e a momenti, in ogni altro paese, avvolge in una nuvola di cipria anche la farsa e che nel caso specifico può essere rinaturato immediatamente, tradizionalmente, con un bel “ma come? è elisabettiano”. Chiaro, chiarissimo, che se vai a vedere un film aspettandoti una cosa, tu spettatore e il film partite in un rapporto penalizzato da un colpevolissimo preconcetto. Superato l’impatto violento, violentissimo, senza scampo né perdono, con un macchiettismo inatteso, a poco a poco si entra, attraverso un passaggio intestino costantemente lubrificato dalla competenza degli attori, in un vero dramma, nel dramma assoluto, nel dramma intriso e portatore di lecito, legittimo, encomiabile femminismo, che nullo scampo lascia, al quale nessuno resiste: nel dramma dell’inGiustizia.

E qui, e qui, e qui, cara signora, “per favore, potrebbe passarmi quel gomitolo piccolo?”, ci lasciamo avvolgere da un filo di Arianna che infallibilmente ci condurrà nientepopodimeno che ad una non del tutto scontata via d’uscita in un percorso in cui non tutto è garantito dalla non matematicamente calcolabile applicazione della buona volontà acciocché il vero trionfi nell’assicurare, e riconoscere, a ciascuno ciò che, nel bene e nel male, gli spetti.

E questo avviene, oh se avviene! In un Fucking Loud Center in cui si affollano i desideri espressivi e comunicativi di un’altissima percentuale di noi umani di schiatta social, è tutto un dipanare, e un riavvolgere; il gomitolo si sbroglia e si rimbroglia in continuazione nella giusta suspence che un prodotto inglese assicura, garantisce, offre sempre, anche nella semplice attesa di risposta alla , chissà se innocente, domanda “per favore, che ore sono?”.

Tutti contenti, infine! Da Giorgio III e Sophia Charlotte a Emmeline Pankhurst, al maniscalco, alle spose che non ebbero mai una torta di nozze, ai figli dell’Impero che Impero non stava più per essere, all’insopportabile genitore sopportato che con i suoi pennellini e la scritta sul carrettino del droghiere si era fatto una gran bella casona borghese.  A meno che non l’avesse ereditata da chissà quale avo possidente.

Cattiverie a domicilio – di Thea Sharrock.  Nei migliori cinema. O in quelli in cui lo trovate.