Peter Pan, Peter Pan, la merendina per l’universitario.

 

Merendine, Università, piccoli Peter Pan non crescono.

Campus sempre campus fortissimamente campus. Il via allo svecchiamento in onore del fanciullo che, allevato non nella cognizione del dolore ma a veglie nella tiritera con chitarrina “Marcello è vivo” mentre ahimè Marcello è freddo stecchito nella bara, diventerà un quarantenne Peter Pan forse disoccupato con i primi peli bianchi a spuntare nella barba, protetto ormai da chissà chi e chissà  cosa. Il mio figlio che ossessivamente non deve soffrire, sembra debba ormai definitivamente dover non crescere e proseguire il suo corso di vita sul doppio binario del “mangia, riposati prima di studiare non stancarti troppo sui libri” e il “ti ho messo il tofu, il ketchup e la maionese nello zaino per il concertone hard-rave-rock di gennaio nella gola estrema su nelle dolomiti che raggiungerai a piedi nella neve. Per domani, non preoccuparti, se piove passa papà a prenderti a scuola e se finisci benzina al motorino, chiama, veniamo noi a portarti la tanica”. Parimenti, il pupil non deve subire choc da quegli sbalzi epocali improvvisi come il passaggio dalle elementari alle medie, dalle medie alle superiori che magari metabolizzerà in notturna con qualche after hour a vodka e birra a go go per non pensarci troppo su. E lo choc per il passaggio crudele dalle superiori al primo giorno di lavoro o di Università? Ci sono voci di idee atte ad attutire perlomeno il secondo. Per il primo ci sarebbe ancora sicuramente da cozzare nello scoglio irto dei sindacati. Ma pare, pare , pare pa’ che qualche rettore voglia attutire l’impatto con l’entrata all’Università dei maturati, sì, ma da cullare ancora come non crescendi. È un gioco? Un torneo cavalleresco? Una botta di playstation? Uno scherzo giocato a questo vecchio mondo dall’eternamente giovane new deal? Nein. Nada di tutto ciò. È, l’evidentemente più plausibile soluzione conservativa e assieme preservativa contro il trauma della crescita ed ogni sia pur lento scivolare nella consapevolezza. Il primo giorno di lezione all’Università sia benedetto, quindi, e reso accettabile da un merendina day, come nemmeno il primo giorno d’asilo dalle suore. Che non ci pensavano nemmeno lontanamente a radersi i baffi per non farti porre interrogativi all’ingresso all’asilo nell’androne un po’ Cena delle beffe e chi non asila con me péste lo cólga. Allegri ragazzi, non c’è Università, oggi, c’è merenda!

E allora? Verranno sicuramente istituite nuove cariche, incarichi, gettoni, ruoli, integrazioni nel nome di chissà quale clausola  contrattuale. Spese, insomma, Spese. Finanziamenti. Non all’istruzione, sia bene. Allo svago e agli addetti allo svago, alle nuove figure di merenderos, remunerabili a punteggio,? A gettoni? Achissàcome? che fioriranno negli istituti.

Ed eccola, arriverà senz’altro, ecco la figura dello snack planner che allestisca la mise en place. Deciderne varie annualmente. Magari quella dal gusto impressionista dejeuner sur l’herbe, un’altra con tovaglie a quadretti tipo ranch di Rin Tin Tin con gran baci tra i maschi alla brokeback mountain, un’altra ancora in puro stile peplum/ritorno ad Itaca con uccisione dei proci e vendita asta di beneficenza dei rocchetti di filato di Penelope, senza contare l’irrinunciabile in stile Via Dalla Pazza FoGlia, con canne e canneti per un duplice gusto retrò sessantottino/DeleddaGrazia. E quelle Apocalipse now che si alterneranno alle altre in stile The Day After e 1997, Fuga da New York per i giorni delle tesi. Insomma, un po’ di ambientazione. Non si vorrà mica che sembri che siamo all’Università!!!???
Viva John Belushi!

 

D U S E – il film

 

 

Spiazzante, per prima cosa, la mancanza di porsi, o la scelta di non porsi, il problema voce.

E della vocalità, quindi, che ci si aspetta da una proposta ambientata e vissuta da personaggi che hanno ragione di esistere, come il film sostiene per tutto il suo tempo, solo in dimensione ed ambito teatrale.

Un po’ come vedere la storia di Barrault in versione anchilosato.

Cresciuti nel silenzio della Duse su suggerimenti di sue vocalità straordinarie e dizioni appartenenti al mito, assistiamo all’esclusione della questione. In una dizione impossibile che già non permetterebbe un passo fuori da ciò che non fosse strettamente autobiografico-autoreferenziale,

in una scansione che raramente permette di capire, ci si snoda la presenza di una Duse che brilla nell’assenza assoluta dell’elemento all’epoca centrale, che ti permetteva di sussurrare all’orecchio della piccionaia le confessioni sibilate; che gli altri in scena si doveva supporre non sentissero, gli a parte a volte velati proposti come passi di un minuetto, esitazioni, del tutto confidenziali, sottili e insieme arrivanti, affidati comprensibili allo spazio, piccolo a volte, altre volte ferocemente vorace tra il palcoscenico e la platea, i palchi, i loggioni, i paradisi, dei teatri.

Quindi Duse, che i Savinio ci liquidavano con poca simpatia come la dolorosa, che la pochissima iconografia ci dava con sguardi obliqui in angolo d’occhio nell’innalzare i sopraccigli e mento al cielo, e che la storia ci ha finora regalato come la modernissima ammodernatrice dell’Arte Teatrale, ‘La Voce! Aveste sentito la Voce!’, qua è una figura-pretesto dall’occhio perennemente umido per raccontarci altro, poco di lei – come vorrebbe un teatro-laboratorio sperimentale e di ricerca quanto la sua strada percorsa – e un docu-film sull’altro grande ammodernamento piovutole come a tutti in capo, presto strisciante negli ultimi tre quarti della pellicola, questa volta social-antropologico-politico-tragico-farsesco che fu il Fascismo. Che vediamo prenderla per le mele, ignara, mentre poverina si invade di sé, arretrata, invasata, laddove la grande contemporanea Bernhardt, italianamente sempre voluta più baraccona della nostra ligia, geniale, essenziale e precisa nel sorprendere divina, qua ci fa un figurone di illuminata – eh già, ma lei veniva da Cartesio –  davanti a una nostra esaltata saltata di slancio, come l’ostacolo da un cavallo che non si accorga di aver saltato, dalla tragedia del 14-18, della quale viene messa sull’avviso, in una scena rimbrotto-bada-bada dalla Sarah mondiale dopo di che, in una sorta di ‘Com’è vero, Signora Mia!’, si abbandona all’ebrezza dell’egalité-modernité. Proprio come avrebbe detto Wanda Osiris intervistata dieci anni dopo la sua ultima chiusura di sipario: ‘il teatro che farei oggiiiii? dovrebbe essere roooomantico”, e giù volute tracciate in aria con la punta degli indici, “e al tempo stesso mooooderno!”, e via due belle secche grandi parentesi quadre tracciate sempre in aria, sempre a forza di indici rapidograph. E il film continua, e la va e la va, senza lasciar capire bene dove ci voglia portare; e giù pessime dizioni, incomprensibili fonemi ci conducono fino alla fine di un delirio che di Vate in Vate ci fa pure tenerezza. Poverina, vien da pensare, come mai si sarebbe potuto pensare di poter un giorno pensare della D U S E. Il paradiso delle scansioni. C’era una volta Martin Eden. Fonè perdonaci tu.

UCCISIONE ANAS AL SHARIF 10 agosto 2025

Vorrei che se ci fosse la pur minima ragione per non compiangerlo, venisse fuori, espressa con coraggio, verità, prove inconfutabili. Altrimenti questi nostri silenzi e distanze stanno concretamente aggiungendo azioni terribili ad azioni orribili che prima o poi, nemmeno troppo poi, temo, in qualche modo rimpiangeremo dolorosamente aver commesso o non aver avversato fattivamente. E lo dico con paura, quella scatenata al pensiero che la capacità di decapitare Bin Laden quel 2 maggio 2011, non affiora adesso in azioni, in reale capacità di tiro, nella perfezione di mira per centrare le cento teste di Hamas, e lascia il ruolo principale, in questa tragedia, al genocidio, all’estinzione di un popolo, alla vile, avida volontà di appropriarsi di un territorio. E la paura gemella, terribile, quella che dovremmo provare per quanto il dolore così determinatamente disseminato non riesce a coinvolgerci, a renderci sufficientemente consapevoli e partecipi. Lo dico col conto della serva: pensate che tra quei bambini, anche fossero solo due superstiti, e ce ne saranno, sì che ce ne saranno, perché nonostante i continui sforzi per farlo reincarnare, Erode grazie al cielo non abita più qui e la volta che ci ha abitato ha fallito, ce ne sarà qualcuno che in futuro avrà una qualche pallida ragione per rivolgere un pensiero, un’opera, un’azione d’amore verso l’Occidente o verso quello che identificheranno come origine del loro strazio mutilante i loro corpi e il loro spirito, lo strazio disumano che ha amputato le loro vite? e Non ha forse occhi un bambino palestinese? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre ogni Shylock?

lele cerri

 

Ma pecché, Filume’?!

Ma pecché???? Ma pecché??? Ma pecché, Filumè’?! Pecché fare un film disordinatino autoconcessivino a tratti ritualmente inevitabilmente commovente come una creatura sgozzata davanti alla madre con perfino il trovarobato sovente anacronistico con una bella immagine d’apertura assolutamente felliniana decifrabile come omaggio a Fellini autore insieme a Tullio Pinelli dell’antico soggetto non a caso mai utilizzato, còre còre còre ‘na cartulina ‘e Napule famme ‘nu shotte, guaglio’, come se si fosse caduti in una trappolona di un Fellini al quale dei destini dell’umanità importava quanto della felicità di un pruno?
Ma pecche? Ma pecché, Filumè’, piezz’e còre, ma pecché?!
Bellino, una favolina un po’ scricchiolante, felice come pretesto per ripresentare a tarallucci (pochi) e vino (poco pure) il diritto innegabile alla comprensione che hanno i ricorrenti tragici eterni fenomeni migratòri. Fazzolettini            e un saluto a Pollicino.

 

La zia gozzaniana del GLADIATOREII

 

Mah…

La zia un po’ gozzaniana di un mio amico, convinta che bastasse essere nata nel secolo precedente per poter vantare un lignaggio di pregio, lambiva con lo sguardo le giovani mogli che i nipoti avevano tesorizzato fuori dalla cerchia delle amicizie familiari e sussurrava al primo vicino più o meno discreto che le capitasse accanto: “certo… come vanno giù le famiglie…”. Certo come vanno giù i Gladiatori. E all’inizio fu… la bruttezza della scenografia, la mancanza di ritmo e la lentezza di movimenti nelle battaglie di massa che sembra abbiano tutti l’artrosi (fare brutta la battaglia terra>mare che è l’apertura del film è da Oscar all’”accontentàmoce”). Seguono; una mappa socio-parentelare che la vera anagrafe sembra sia sempre stata Tombolo e una costante disinvoltura generale per cui può anche nascere il dubbio di aver intravisto ad un tratto, sullo sfondo, sotto un colonnato, il Feroce Saladino che sta a fa’ una pippa a Menenio Agrippa che je urla: “ahò, ma io so’ dder 500 a. C. !” . Más allá, a ogni piè sospinto salta all’occhio che la Rivarossi e la Dinky Toys avevano più rispetto della scala. Meno male che c’è Denzel Washington, che agita e ruota bellissimi broccati che nemmeno un toreador col capote de brega. E ha tutta l’aria furbina di aver usato ogni giorno della lavorazione del film come messa a punto di un qualche Shakespeare che, ci possiamo giurare, gli gira vorticosamente in testa di ammollarci abbastanza presto. Welcome. Countdown.

P. S. Speriamo non lo faccia con Scott

NON TI FIDAR di chi ti dice che è brutto

Mi hanno detto “non andare a vederlo!” perché qualcuno di cui si fidavano aveva detto loro che era un film insopportabilmente brutto. Ho disatteso il suggerimento e mi prendo la piena responsabilità di ciò che dico: l’ho trovato bello, a tratti bellissimo.                                                                                                                Non foss’altro, si fa per dire, per il magnifico repertorio di evergreen che sciorina, sfruttato magnificamente scena per scena. Insomma, un film che è un bellissimo palindromo leggibile in un verso e nell’altro, dritto e rovescio senza che perda il minimo significato. Phoenix è di quella bravura che non si può più chiamare bravura perché sfocia inevitabilmente ed incontenibilmente nella grandezza. Lady Gaga fa la sua parte e appare conscia della fortuna di aver potuto rivisitare tutti i pezzi non come semplice rendition, stavolta, ma in un contesto in cui sono assolutamente funzionali.  Si può parlare di emozione? Sì.

La si trova, l’emozione. Basta essere disponibili a farlo. Altrimenti è subito knock-out, non si entra, si rimane fuori, fuori dal film, fuori da un’occasione. Peggio per noi. La si trova nell’immediato utilizzo di molti linguaggi, tecnici e linguistici, alti, medi, bassi, lontani, vicini, nostri, loro, interiori, epidermici. Nell’utilizzo delle musiche. Un musical fatto con musiche non sue, con pezzi di trovarobato che nella loro lunga vita hanno accompagnato strappamenti di lacrime ai prosceni del vaudeville, tiptappamenti nei bianco e nero di epoche gloriose, nei burlesque transatlantici e nei più spietati strip tease dove il reggiseno volava via in levare a un bum di pedale sulla cassa, a Broadway come a Pocatello Idaho. Adesso, qui, scocca, inatteso, il dicotomico  attimo di redenzione per l’anima di un carceriere improvvisamente provvisoriamente soave nella sua vocina amabilmente all american sound. Eccomi, sono un musical senza musiche mie. Sono una tragedia che ha il gusto sottile, sibilante, di certo inarrivabile a e per molti, di restare in commedia; e musical! senza nemmeno l’addentrarsi nella corposità del melodramma; niente sesso, siamo inglesi, anche se americani! anche mentre si fa sesso. È subito chiaro che le crisi di identità, la multidentitarietà, la fa da regina, perfettamente incoronata anche dalla scelta e dall’uso che si fa dei pezzi musicali. La forza sta nello stato di basso profilo che ha la qualità dell’understatement, che molto rappresenta, molto dice, molto lascia liberi di azzeccarla, capire la cosa giusta. I due, lui e lei, cantano, benissimo per il contesto, con voce e intonazione da smandrappati che mai l’idea di ritrovarsi in una sala d’incisione ha sfiorato. Lei è brava a fingere di non esserlo, essendolo moltissimo nel dare pienamente ai pezzi quel che il film vuole. Lui, bones&soul, ormai carcassa di bones, è un giuramento continuo di soul, fatto sempre un po’ più dappresso, un po’ per celia e un po’ per non morir, si sa, that’s entertainment!  Che poi invece… Senza farla troppo palloccolosa, la tragedia innegabile e inevitabile come quella che toccava per destino agli eroi greci, qua è semplicemente il musical che Joker fa di sé, mantenendo il basso profilo del più generico trovarobato in cui il dramma sarebbe soltanto una terra di mezzo: i pezzi non vengono nemmeno dal più alto repertorio degli standard, ma sono dei leight motif, dei classici nell’esistenza di chiunque abbia trovato nel musical un circo d’elezione, nell’umiltà di un that’s entertainement che la dice tutta, chiara e forte, almeno agli uomini di buona volontà. Per gli altri, è valsa la pena di uscire per mangiarsi un barattolo di dimensioni californiane di pop-corn.

L’INSOPPORTABILE PULSARE DELLA VENA DEL BATTUTISMO

 

Comicità e ironia, e le loro caviglie sempre a rischio di sprofondamento nella pateticità del battutismo. E’ questa la palude della nuova comicità, le sabbie mobili in cui si tende gaiamente a sprofondare addirittura tuffandocisi di testa. ‘Ah, annammo bbène’ diceva romanamente la milanesissima Franca Valeri, più snob delle sue signorine snob, riservando per sé lo snobismo, vero, che vive spalla a spalla, a sottilissima linea di confine, con alcune allergie dell’anima, reso plausibile e legittimo e perfino estremamente elegante, anzi raffinato, dal corredo di acume, intuito, prontezza nell’ordinazione, “una menta!”, che rendono immediatamente percepibile la persona intelligente per immediatezza, misura, al di fuori di teorie e sbrodolate intorno ai massimi sistemi, la persona per natura affrancata dalla vitale profondamente volgare necessità che si sappia che è una vera signora o, oltre ogni border line, un intellettuale.

Nessun volo pindarico, solamente una sostituzione di culto, nel passaggio agli adesso diffusissimi, ingannevolmente immediati ma innegabilmente fruiti, goduti,  spassionatamente e appassionatamente accolti e replicati  “aoh a me me rode il culo”,  prologo  sostanzialmente  “e co’ questo ce lo sapete, se tratta de ride, ah no?…” a un  “e mo’ sì che ha da veni’ er bello”, sottopensiero che sorregge la vis comica del performer di successo. Ragazzi, ragazze, donne, uomini, di borgata o di quartiere, ruspanti o freschi di laurea, tutti nuovi donatori di felicità non rosi dal tarlato timore dell’effimero,  umani silos di adrenalina a go-go, innamorati pazzi dello stupore di sé e della propria sedicente simpatia. E si ride, si ride, si ride, di non si sa cosa ma si ride. Si ride non di comicità, men che meno della sconosciuta ironia che a pochissimi appartiene e alla quale ancor meno pochissimi sono eletti dalla benevolenza di madre natura. Si ride con i disinvolti del baretto, che entrando già ridono di gola e di ganascia fieri di un loro “aoh, famme ‘n po’ ‘n caffè..”, si ride con i battutari  e battutare che nelle godutine per l’eruzione continua della propria divertentezza,  con orgoglio si sistemano ostentatamente gli attributi sotto cintura o si sistemano la quinta maggiorata con un bel push-up manuale.  Battutari, dilaganti, onnipresenti, in fila alla posta, fuori dalle stanzine di un catasto, che in attesa di arrivare in TV e in teatro, e ci arriveranno, popolano e spopolano da barbieri e parrucchieri, dove scombussolano  gli equilibri emotivi di barbettoni, riccioluti, doppitagliati o glabri totali in attesa del loro turno, mettono a rischio la fermezza della mano di qualche barbiere che si scompiscia, sbaruffano  con le loro raffiche di irresistibilità i bigodini di signore che ridono ridono ridono, ridono di tutto quello che poco dopo, uscita la divertente divertita disinvolta disinibita “che ai peli sulla lingua s’è fatta ‘a ceretta”, censureranno. Ma si ride, oh sì, quanto si ride. Si ride e si va volentieri a ridere “annanno affanculo”,  “vedennoce anna’”  tutta l’ironia sbruffona dei “che d’è?”, dei  “che vor di’?”. Si ride come si potrebbe ridere se la tendina del ripostiglio rimanesse impigliata nella cassetta di frutta vuota che “la butto via domani”, come per la scoperta che le cipolle in frigo sono marcite, come per la paura che se non ridi alle raffiche di “ahò” “embè” “anvedi”,”o icchè”, “‘o ‘i cche c’è?”, “e allora?…” del battutaro del bar all’angolo, quello ti ammolla un cazzottone nei denti o ti dice “la maiala di tu’ ma’ “. Ma si ride, si ride. “Aoh, che te ridi? …mamma ha fatto i gnocchi?”, “marianna maiala, o’ i cche tu c’hai nelle mutande? Un baobab?”. Oh, cribbio! Non ci avevo pensato. E se fosse tutta colpa di Mae West e delle pistole che vedeva in tasca al cow boy di turno? No, di quello non ride più nessuno. O, se ride, è gay? Anche il cow boy? Danni del sovraffollamento.

INEDITI: STORIA, AMORE E LA MELLIFLUA ALA DELLA NECROFILIA

INEDITI: STORIA, AMORE E LA MELLIFLUA ALA DELLA NECROFILIA

Oggi, sui social hanno pubblicato un brano molto modesto di Billie Holiday, con interventi di molti che ci hanno incondizionatamente, appassionatamente ed incautamente, sbrodolato sopra. È un brano meritatamente poco noto inevitabilmente destinato ad essere relegato eternamente nei colori di cose risapute, già meglio documentate, nei sapori, negli odori dolciastri degli anni trenta, ciprie che sprigionavano miele e tuberosa, finestre tirate su a metà, una provvidenziale mezza penombra da sotto le cortine mezzo abbassate, veli di tendine immobili, letti sgualciti suffragati dal sospiro di un ventilatore svogliato, mutandine e mezze sottovesti di sete scadenti incollate di spietato sudore in un insieme di apparente irrinunciabilità da cui tutte quelle bellezze sdraiate avrebbero voluto fuggire.

L’ostinazione a pubblicare takes scartati dall’interprete al tempo della registrazione ha tutto il sapore della necrofilia, leggermente putrido, marcio di pus e di un amore che bacia in bocca il morto. L’alibi più solido è che si sta scrivendo storia documentata. D’accordo.  Ma non suffragate dall’ultra-secolarità del tema,  rimangono spesso operazioni di aspetto terribile da cui i necrofili più ghiotti e affamati si riscattano con professioni d’amore e volontà di rinunciare alla loro vita reale attuale pur di ritrovarsi là, allora, dentro la gabbia del cantante, a penetrare sospinti dai suoi fiati nelle griglie del microfono, finire aggrappati come ad un salvifico spuntone di roccia al chiodo della testina a impiastrarsi sulla cera insieme ad ogni nota. Il cantante è in mutande, in sottoveste, inginocchiato in cucina ad asciugare il caffè sul pavimento, attento a non bruciarsi con la caffettiera bollente che gli era scivolata di mano. Beccato. Il re è nudo. La siepe del giardino è crivellata di curiosità, il portinaio ne sa una più del diavolo, il bidone dell’immondizia racconta molto più di quanto sperassimo di riuscire a sapere. Resta solo il rimpianto di non essere riusciti a far diventare la parete del bagno una vetrina della quinta strada, ma per oggi sfoderiamo tutta la nostra armoniosa capacità di accontentarci, e il disco con il take all’epoca scartato può uscire.

PREVIOUSLY UNRELEASED: HISTORY, LOVE AND THE MELLIFLUE WING OF NECROPHILIA

Today, on social media they published a very modest song by Billie Holiday, with contributions from many who unconditionally, passionately and recklessly have poured over it. It is a deservedly little-known piece, inevitably destined to be relegated eternally to the colours of things already known and already better documented, flavours, sweetish smells of the 1930s, face-powders that released honey and tuberose, windows half-drawn up, a providential half-light from under half-drawn curtains, veils of curtains motionless, crumpled beds supported by the sigh of a lazy fan, panties and half slips of cheap silk glued with implacable merciless sweat in a set of apparent indispensability from which all those reclining beauties would have liked to escape.The obstinacy in publishing takes discarded by the performer at the time of recording has all the flavor of necrophilia, slightly putrid, rotten with pus and of a love that kisses the dead on the mouth. But not helped by the ultra-secularity of the theme, they remain operations of a terrible and fetishistic aspect from which the greediest and most hungry necrophiliacs redeem themselves with professions of love and willingness to give up their current real life in order to find themselves there, then, inside the singer’s cage, to penetrate, driven by his breaths, into the grills of the microphone, end up clinging as if to a saving rock spike to the nail of the head and getting smeared and sticking in the groove on the wax together with every note. The singer is in his underwear, in his slip, kneeling in the kitchen drying the coffee on the floor, careful not to burn himself on the hot coffee pot that had slipped from his hand. Gotcha. The king is naked. The garden hedge is riddled with curiosities, the doorman knows more than the devil, the rubbish bin tells much more than we hoped to know. All that remains is the regret of not having managed to turn the bathroom wall into a fifth street showcase, but for today we show off all our harmonious ability to be satisfied, and the record with the unpublished take at the time can now be released.

Un razzista è un pezzo difettoso nella catena umana

Amerò sempre Holiday. E sosterrò sempre le cause umane e i diritti civili e lotterò per la interminabile tragedia dei diritti umani calpestati ma, nonostante Strange Fruit spieghi con immediata chiarezza una imperdonabile vergogna perpetua, è una canzone che non mi è mai piaciuta. Ed è purtroppo un autentico delitto che sia ancora necessaria per denunciare l’inconcepibile vergognosa  forma mentale di chiunque sia sostanzialmente ignorante e grettamente primitivo da essere razzista.  Un razzista è un pezzo difettoso nella catena umana.

I will always love Holiday. And I will always support human causes and civil rights and I’ll fight for the interminable tragedy of trampled human rights but although Strange Fruit explains with immediate clarity an unforgivable perpetual shame, it is a song that I have never liked. And it is unfortunately a real crime that it is still necessary to denounce the inconceivable shameful mental form of anyone who is substantially ignorant and narrowly primitive enough to be racist.  A racist is a defective piece in the human chain.

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Billie Holiday vs. Billie Holiday

Gennaio 1949 – La stampa scriveva: “Fermata per possesso di oppio, Billie Holiday si presenta alla Corte in visone selvaggio da 7.000 dollari e tailleur con colletto nero”.

CHE FOSSE tossica mi fa incazzare come poche cose al mondo; non riesco a vederla in nessun altro modo, la trovo una dolorosissima enorme tragica cazzata. Ma che la lasciassero anche un po’ in pace! Lei era uno spirito libero, si potrebbe anche dire piuttosto infantile, primitivo. E quella stradannata vita era la sua. Alla fine dei conti, tutto il male che può aver sempre fatto, l’ha sempre merdosamente fatto a sé stessa. Lei era molto più innocente di tante autorevoli figure officiali che il male lo spargevano in giro. In questa foto dell’articolo, vista la circostanza, è molto bella così sdegnosa ed altera. Certo, lei gli uomini se li cercava tra i peggiori. Il dato certo e incancellabile è che a rappresentarla, in qualsiasi modo possa essersi rappresentata, a rappresentarla potrà esserci soltanto, e sempre ci sarà, Billie Holiday.

THE FACT THAT SHE WAS a drugs addict pisses me off like few things in the world. I can’t think of it any other way, I find it a huge tragic interminable bullshit, I find it a very painful bullshit. But I mean… they would have left her alone too! She was a free spirit, we could say maybe quite primitive, and that damned life was hers. In conclusion, all the harm she may have done she has always shittily done to herself. She was much more innocent than many authoritative official figures. In this photo, given the circumstance, she is very beautiful, disdainful and haughty. However, the fact remains that she really looked for men at their worst. The final certainty is that, in whatever way she may have represented herself, the only one who can represent her essence now and ever will be Billie Holiday.