LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO di Pupi Avati

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO e di PUPI AVATI

Violento. Di una violenza  sentimentale forte e sfrenata come adesso si spiega bene con pazzesca. Ti pesca dentro spietatamente. Non ti viene nemmeno di pensare alla fotografia o ai piani, che è e sono semplicemente indubitabilmente quelli giusti. Potrebbe essere su pellicola a losanghe o a pois non importerebbe.   Il film è quello che tratta e come lo tratta. Questo per i primi 40-45 minuti.

Poi l’ho sentito diventare fiction, con qualche lampo di ritorno allo stato di grazia che punteggia qua e là gli ultimi 15 minuti.

Ma anche un maestro di case dalle finestre che ridono, di gite scolastiche, di cuori grandi di ragazze, che pure arrivano eccome, di aliti di gelsomino del non colore dell’aria di Macondo può portarsi nel suo, di cuore, anche se ormai libero, l’ingombro, il fastidio di condizionamenti-assalti non tanto sonnecchianti inflitti dalle raffiche continue di qualcosa molto simile a nuove estetiche, dalla mutazione della comunicazione variata nell’antropologia dinamica dei social, dall’universo dei media, dalle nuove leggi della realizzabilità.

Lodo Guenzi, su cui è infissa la punta del compasso intorno alla quale ruota il cerchio galattico dei sentimenti, caratteri e loro motivi, mi è parso stranamente stereotipatino proprio nei momenti davanti alla sua arma d’origine che è il microfono, mentre, mi sento di dire, perfettamente misurato in ogni altra zona della parte sempre difficilissima e sempre rischiosissima del nevrotico.

Fenech, in una posizione disagevole come quella di Swanson in Sunset boulevard, manca, come tutti al mondo, dei geni della Swanson in quel capolavoro; ma ho trovato  in quello che semina in tutte le sue scene la poesia della causa strenuamente sposata, ovvero il film e il proprio ruolo che, come augurabile ma per nulla matematico, le ho sentito declinare sentitamente con delicatezza.

Molto carino, bello, mi è arrivato diritto al cuore il pacchetto dei titoli di testa con immagini d’epoca e pianoforte all’uso del garbo di Allen b&w. Poi Cammariere-Gregoretti e Avati non resistono alla necessità di archi ad arcobaleno. Ma l’impressione è stata che siano serviti loro per dichiarare subito onestamente le intenzioni a venire. Per il resto della musica, mi è arrivato un tormentino dello stesso giro armonico per ogni proposta. Ma dato il cachet non tanto caché del regista e rimanendo dello stesso animo ben disposto offerto, fin dall’entrata, da spettatore che assiste alla creazione di un mondo,  mi butto prudentemente a credere sia scelta estetica funzionale e necessaria. Sì, ci chiamano Mimì.

Il film, nei fili anche interni del gomitolo non aggrovigliato, e illuminato fin ben dentro che è, somiglia un po’ a te, un po’ a me, un po’ a noi, un po’ al nostro migliore amico, un po’ al peggiore collega, un po’ a una per niente latente  presenza infantile sparita nel nulla, un po’ a quello là che conoscevamo… poi di nuovo a me, poi di nuovo a te, poi di nuovo a tutti, poi per fortuna no a chi si vuole bene, poi invece purtroppo sì.

E chi è lo sciagurato fortunato che non ne ha dentro una fetta, anche sottile come una di Langhirano?

All’uscita, viene voglia di rivederne i primi tre quarti d’ora per riconciliarsi col film per intero. Ma viva Avati comunque. E grazie Maestro per il tanto lavoro, sempre, che è come quello anche di un solo film: difficile faticoso impegnativo pieno di incognite sebbene conosciuto, che fa sudare sangue all’anima; anche se amato.

lele cerri

 

GRAZIE RAGAZZI di Riccardo Milani con Tutti Bravi

Surprise! Surprise! Surprise! modulava un coro in una pubblicità di piselli congelati che alla TV inglese, in quell’inverno del nostro contento 1964-65, interrompeva ogni 15 minuti il film o quello che ci fosse in programmazione.

Un surplus di piselli da avere nausea di piselli e sorprese per tutta la vita.

Ma sorpresa, molto sorpresa, bella sorpresa, ieri sera al cinema Centrale, ex Pidocchino adesso sala di rodaggio per film di qualità ma anche non, dove ho vissuto quella sempre più rara sensazione, stato d’animo, mood, dolce trastullamento, di quando desideri che il libro che stai leggendo non finisca mai.

Anche se ero rassegnato all’idea-consapevolezza che tutto, più nel bene che nel male, finisce, non avrei mai voluto che Grazie Ragazzi finisse.

Eppure ero arrivato un po’ timoroso, non scettico, come spesso mi succede, ahimè, ma timoroso sì,  per il fatto che il soggetto teatro-carcere-istituto di detenzione ad ampio spettro avesse già illustrerrimi precedenti, tanto illustri che per loro illustrissimo è poco; il mio malanimo sprizzava una nuvola di  ‘facce ride…’, proprio quelli di cui platee incallite di matiné e serali cibavano le tante pance vuote di artisti d’avanspettacolo, platee smaliziate e precise, infallibili nel lancio di  gatti morti tirati a tornichetto, su, a  planare in piena scena o, con più manoi, in faccia al fantasista; insomma, la cattiveria dello spettatore pagante, sì, ma spesso anche di quello sfrontatamente ospite. Osso duro, lo spettatore! Di solito recita e dirige benissimo, almeno finché è in platea.

E invece no! Mi sono ritrovato in tutt’altro stato. Nodo alla gola? Bello incravattato, sì.

Rapito, emozionato fino alla commozione, continua, costante, per tutto, per la bellezza della proposta che nel teatro c’è vita, salvezza e speranza nostra, salve, come ci hanno insegnato da piccoli anche in latino, sia all’oratorio che alla messa chic di mezzogiorno con le signore impellicciate, il braccialetto a manetta o di sterline d’oro al polso.

Commosso per tutti i segmenti che hanno composto l’unicum della trama, coinvolgenti sempre, senza aver nessuna remora a riconoscere con onestà la bellezza di commuovermi per ogni che succedesse sullo schermo, perfino delle furbizie che fluttuavano per tutto il film; anche un po’ della sua ruffianeria buonista un tantino alla Frank Capra, come avrei rimuginato poi, ruminando, ben dopo l’uscita, come si fa quando ripercorri criticamente un’emozione.

Che mi sia vergognato con me stesso per aver avuto le gote umide per tutta la durata della proiezione? No. Commosso. Per tutto, per la sfrontatezza del continuo proporre una disperazione che nell’ottimismo e nella bontà montessoriana ci fa continua zuppetta come nemmeno nelle prime candid camera del duemiladodici a.C. , quando freschi spettatori televisivi all brand new inebriati da Nanni Loy. Ma no! Macché vergogna! Nemmeno per sogno, sai che c’è?, stasera, dai Bravi Ragazzi, ci torno.

E nell’assurda speranza che quel Godot bellissimo non finisca mai, si arriva sfiancati dal senso di bellezza che molte cose hanno perduto la capacità di infondere e che qua ti riveste di continuo, per tutto ciò che compone il film e che in tessere, nuvole, momenti fitti di sé, ti arriva addosso e ti avvolge del tempo e del pulviscolo ormai immaginario della proiezione. Che sai deve inesorabilmente finire, di cui ogni momento è un momento in meno, che ogni momento è lì ad avviarsi verso la fine. Anche questa è una delle tensioni che il film riesce a creare, che lo creano, che lo compongono.

Ma.

Anche il finale è bello astuto. Per accompagnarci o buttarci fuori da quella bambagia irsuta in cui il film ci aveva adagiato, al film occorreva una soluzione a quel punto difficile, un gimmick come dicono gli americani fin dai tempi del Vaudeville nella loro lingua ormai a noi tanto cara da risultarci indispendabile, una trovata, e la trovata è stata trovata. Ha un po’ meno tensione di qualsiasi altra soluzione e di qualsiasi momento del film, ma ci ha offerto una coraggiosa soluzione-alternativa ai pericoli che una storia-plot-trama così fatta correva nel finale.

Non avrei mai pensato, quando ho deciso di andare a vedere Grazie Ragazzi, che mi sarei ritrovato a rifletterci più di tanto.

Ci tornerò. Non foss’altro, per la goduria indecente, spudorata, di vedere recitare così bene, tutti, sorprendentemente, come non vedevo da anni in questa Italia cinematografica, o generalmente scenica, da troppo tempo diventata così smanaccante e ammiccante.

Lo svergognato coraggio, la presunzione di poter essere tanto sentimentali da far venire voglia di vedere ‘sto benedetto Godot, da riuscire a incuriosire sul fatto che esista, da far venire voglia di cercarlo dove non c’è più da tempo.

Surprise, alla francese o all’inglese che sia, sorpresa, bella! Anche se illuminati illuministi vorranno condannarne in eterno il coté sentimentale che loro potrà sembrar pari al fascino egizio che non nascondeva l’artefizio di Lola Prima.

A più tardi, ragazzi, torno a vedervi.

                                  

MAIGRET Patrice Leconte – Depardieu

 

25 settembre 2022

MAIGRET – Patrice Leconte  con Depardieu

Ho visto Maigret di Patrice Leconte con Gerard Depardieu. Non ho letto Simenon ma mi dicono che Maigret e La Giovane Morta da cui il film è tratto è parecchio diverso dagli altri 75 romanzi e 28 racconti anch’essi imperniati sul metodo Maigret.

 

Depardieu, solenne, dirà sì e no venti parole nelle tre battute in croce che ha in tutto il film.
Il film è bello. Leconte, si sa, lo abbiamo sempre visto, ha un suo linguaggio cinematografico molto letterario, sempre. Qua l’ho trovato crepuscolare, ma avrebbe avuto la stessa impressione anche un gatto, e di una malinconia che va ben oltre la malinconia. Anche un po’ schizofrenico: più che con i cut cut cut furiosamente rapidi, netti, ormai così indispensabili al cinema di adesso, qua Leconte ci sposta a spallate da una collocazione a un’altra che ci sarà da capire come attenga, con la camera che si sposta scavando come sguardi attenti a cercare qualcosa che si sa che c’è ma non dove e cosa sia, e lo fa tuffandosi in piani che funzionano come zoom-dettagli-primo piano di capigliature e di apparentemente inutili stoffe delle spalle di un vestito per proseguire e perforarle fino a trapassarle sprofondando nel pelo dei capelli e nella nuca di chi lo indossa per sbucare a inquadrare la faccia di chi gli è di fronte. C’è, c’è, c’è, da qualche parte c’è. Qui o altrove. Cercare, cercare, cercare è necessità, è un pensiero in cui si sprofonda di continuo con il più profondo sentire per quello cui è rivolto.
Un film pieno di tristezze lecite, con motivazioni personali dapprima  sfumatamente suggerite, poi fatte più nettamente sospettare e infine elementarmente addirittura dichiarate, in chiusura, come chiamate per nome.
Mentre lo vedi è un lavoro cinematografico che richiede l’attenzione su come è fatto, per come è fatto, per un continuo naturale invito a perderti nel cinema di cui è fatto il film, per un continuo suo voler portarti a sperderti in movimenti di ogni tipo, di camera, di luogo e di sviluppo, come fa la mente che cerca, e che mentre cerca ricorda, come fa l’occhio che vuole trovare. Insomma, stai attento al film, a non confonderti tra facce terribilmente tutte uguali delle figure femminili messe lì così come a confermare ossessivamente un modulo al quale non si riesce a sfuggire. La tragedia avvenuta, la intuibile morte della figlia, poi acclarata da una irresistibile, innegabile legittimazione a chiamarla quasi per nome, si perpetua, è perpetuata da quello sguardo-camera-pensiero-contenutodiMaigret che cerca, fruga in una mobilità che non è un cut cut cut ma è inquietudine, di quella seria, profonda, che chi la porta e chi la percepisce può di diritto chiamare dolore.
Insomma, vai al cinema, poi esci dal cinema, vai a fare due passi convinto di aver visto un film e, arrivato a casa, da solo, ti affiorano tutti i sapori morali sentimentali umani dei quali il film è non così semplicemente impregnato.

 

 

 

I suicidi del mondo

I SUICIDI DEL MONDO

Stiamo combattendo una guerra minacciosamente interminabile per una causa assurda e che in realtà non esiste e le cui vittime sono e saranno vittime di quella follia che quando da laica diventa istituzionale si veste di una sgargiante inaccettabilità dalla quale non la monda nemmeno la sua inverosimiglianza. Sarà strenuo mondare tutti i colpevoli dai loro peccati.  Come non meriterebbero, i colpevoli di peccati di cattiveria e di trasversale bontà verranno consegnati alla storia, assurgeranno al vanitoso ruolo di inquilino dell’eternità; ruolo per il quale hanno declinato quel senso di responsabilità e di consapevolezza che semplicemente si hanno o si dovrebbero avere , se non per altro, come semplici esseri parte di un’umanità che troppo sovente non comprendiamo o alla quale non ricordiamo di appartenere, una società della quale non abbiamo alcun senso, nessuna coscienza, come nemmeno abbiamo più coscienza dei nostri ricorrenti suicidi; e più nemmeno dei morti.

 

la battaglia degli eroi  lele cerri 1997

 

Nous menons une guerre qui semble déjà interminable pour une cause absurde qui en réalité n’existe pas et dont les victimes sont et seront victimes de cette folie qui, lorsque de laïque devient institutionnelle, s’habille voyante d’inacceptable dont même son invraisemblance ne la purifie pas. Il sera difficile de purifier tous les coupables de leurs péchés; comme ils ne le méritent pas, ils seront relégués à l’histoire, ils s’élèveront au rôle vaniteux de locataire d’éternité pour lequel ils ont décliné ce sens de la responsabilité et de la conscience, que l’on a simplement ou devrait avoir en tant que simples êtres faisant partie d’une humanité que trop souvent nous ne comprenons pas ou à laquelle, trop souvent, ne nous souvenons pas d’appartenir, dont nous n’avons pas le sens, aucune conscience, comme nous n’avons aucune des nos suicides récurrents; ni des morts.

We are fighting a menacingly  interminable war for an absurd cause which in reality does not exist and whose victims are and will be victims of that madness which, when from secular becomes institutional, takes on a flamboyant unacceptability from which not even its improbability will purify it. It will be strenuous to cleanse all the guilty from their sins; as they do not deserve, they will be consigned to history, they will rise to the foppish role of tenant of eternity for which they have declined that sense of responsibility and awareness that one simply has or should have as simple fragment of a humanity that too often we do not understand or to which we do not remember we belong, of which we have no sense, no consciences, as well we have none of our recurring suicides; nore of the dead anymore.

 

The Square, un film per tutti

The Square – il film di Ruben Östlund

The Square, un film per tutti.

 

Un po’ come quando a una proiezione di un film lappone in lingua originale qualcuno seduto dietro di te si dà a percettibili risatine e mugugna in maniera da essere sentito a dimostrazione che capisce perfettamente il lappone ladakhi,  anzi, che è una lingua in cui scherza anche col gatto. Ecco, mi ha fatto quell’effetto la critica del New York Times: “da morire dalle risate”. Ci speravo anch’io, l’idea mi faceva gola. Tanto. Purtroppo, sono uscito vivissimo da un film che mi è sembrato bello al di là di sue momentanee involuzioni, autopunizioni o dicotomiche smaccate autoindulgenze. Perché, ancora purtroppo, a parte qualche rarissimo strappato sorriso, non ho mai avuto voglia, in nessuna scena, di ridere stronzamente, à la manière de, sulla rappresentazione della stronzaggine, nel gioco diffusamente ritenuto molto qualificante di cavalcare impalcature-sovrastrutture come fossero purosangue o come fossero l’impalpabile ultimo fiocco di cenere di quella fenice che è un presunto qualsivoglia talento pronto a risvegliarsi in noi, all’occorrenza, per premiarci come il fantasma di un antenato che ci ammanti di blasone, sul rettilineo d’arrivo di una corsa all’anabasi, anabasi!, a sottrarci alle conseguenze di ogni sprofondamento della nostra anima, di ognuna delle nostre toppate, grandi o grandissime che siano, alte o basse, senza farne adesso classificazioni di rango, oppure facendone, nei momenti fortunati in cui si possa ripartire da zero o poco più.  Eventualità, tutte, che investono anche il genio creatore protetto da Fortuna divina che si vuole facciano perdere meno a chi ha meno o nulla da perdere e, apparentemente e secondo alcuni gradi di valutazione, facciano perdere molto di più a chi ancora non ha perso niente di quello che fin lì si è strepitosamente aggiudicato.

Entro al cinema circondato da mormorii e disperazioni sull’insopportabile ricordo di un’Italia Svezia del giorno prima.
A rendere più acuti i dolori per subiti pallonetti, dribbling, barriere e corpi a corpo vari, allo spettatore sconsolato già devastato dalla già patita  perfidia della Svezia, in risposta alla preghiera “padre allontana da me questo calice, ma straziami ancora se serve a darci i nostri derby, andate, ritorni, coppe e targhe quotidiani”, è arrivato, come un ceffone dopo un mancamento,  The Square.

Ormai è fatta. Il film è finito, spalmato sulle facce di qualcuno visibilmente rititolato “Un tentato eccidio”. Mi avvio nel dondolio dei sopravvissuti. A guardarli brancolare verso l’uscita, The Square, più che un film, è stato un cecchino che ha smitragliato su corpi indifesi centrati in pieno nella luce dei fotogrammi che scorrevano sullo schermo come un nastro mitragliatore.

Corro scendendo a quattro a quattro i tre scalini all’uscita del cinema e, nudo a pelle di qualsiasi risollevante consolatorio aggancio calcistico, raggiungo quella che mi appare la più prostrata, disperata vittima della visione di The Square; miseramente lo aggredisco e gli propongo una più prossima a noi versione interpretativa:

Il film è un condominio con qua e là tratteggiato l’incubo di una simulazione di riunione condominiale in cui ci necessiti un nostro intervento in cerca di una soluzione, quale che sia, tra migliaia: per noi elementi sociali in equilibrio incostante, per un nostro tubo che perde, per i problemi altrui che si manifestano come piaghe bibliche, con diffusa nel cuore un’istintiva antipatia nei confronti di un condomino del secondo piano per niente paragonabile all’insopportabilità ustionante dell’indifferenza degli occupanti l’attico che nemmeno ci salutano, nemmeno se centrati in pieno sul portone. E, ancor più,  l’incubo fino all’ultimo respiro, affollato di dettagli che si susseguono con la velocità di un serramanico,  stretti alla gola dall’affanno in un’ inevitabile e interminabile discesa dalle scale un giorno in cui l’ascensore è guasto, con in mano una  frusciante mazzetta non più furtiva ammollataci furtivamente nel ripostiglio del piano di sopra o con i pantaloni squarciati sul sedere, o ecco sbocciare dalla fessura tra due scalini, al braccio del  marito, la signora alla quale giorni prima abbiamo fatto una quasi impercettibile quanto consapevole mano morta in ascensore; o è  la signora della pulizia scale ex proprietaria dell’appartamento che abbiano comprato a due lire all’asta? O la nuova Babele. O il nuovo Caos dopo anni di tentati Logos, o un fac-simile della sera di Sant’Ambrogio alla Scala. O un corteo di striscioni ‘Prima il concettuale o l’uovo di gallina?’, ‘Il jazz è una tenda a ossigeno‘, ‘Io sono mio‘, ‘A house is not a home‘, ‘Transenne all’Avanguardia‘. Un ricadersi in bocca, come a tratti fa il film per esemplificare. E via e via… Visto che è un film per tutti?

The Square – il film di Ruben Östlund

Nothing remains. Barche vita mia.

Non resta nulla. Barche vita mia

(m/y Nidas in navigazione – foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi)

Tutti i veicoli d’epoca che ho usato per i miei spostamenti erano italiani e degli anni ’50. Anzi no, uno era inglese. All’epoca mi muovevo spesso. Quando riuscii a comprarmi una barca, pensai che ce l’avevo fatta, ero davvero felice; quella barca, proprio lei, l’avevo vista molto tempo prima e me ne ero innamorato al primo sguardo, subito. Tutte le barche a bordo delle quali sono salito o che ho guardato a lungo da piccolo e anche dopo, dalle banchine sulle quali ho passato le ore più felici della mia adolescenza, sono rimaste impresse nei mie occhi e nel mio cuore; ne ricordo minuziosamente e con emozione ogni particolare delle linee degli scafi, la distribuzione delle sovrastrutture, oblò, occhi per guardar loro dentro, sartie e crocette degli alberi, la bellezza di bozzelli in legno in schooner inglesi degli anni ’10 e ’20 del novecento, la riga colorata, gialla o blu, delle loro linee di galleggiamento, le vele, i dettagli della poppa, l’imponenza e snellezza degli alberi. E la girandola immobile delle eliche quando erano in secco sugli scali.  Comunque, tra tutte, quelle che mi sono rimaste care come le zone più belle di quella mia età delle crescite sono la prua dritta del Sibilla e del Perry, la lunga poppa a ventaglio del vecchio motor yacht dall’aria straniera che si voleva fosse stato degli Antinori e divenne il primo bar galleggiante del porto, il Nidas, indecifrabile, forse di origini francesi, dal naso alto e lo specchio di poppa di una sottigliezza che gli faceva accarezzare la scia: e poi le linee già più flessuose e lanciate verso la modernità di Edna, del Dentale e della sua quasi gemella Qibla, del San Giorgio e del Filippo II, l’assurdità catturante del Mavì, brigantino goletta in ferro con lamiere imbullonate che coi suoi casseri, alberi, pennoni, trinchetti e doppi bompressi sembrava già pronto a portare in una comoda andatura di lasco Capitan Uncino nelle maree dipinte tra le luci sui pannelli dei flippers, a trasbordare giocatori  in qualche futura, ancora sconosciuta, imminente gara digitale su percorsi ancora più luminosi, tra cosi tante nuove intermittenze di lampi e di suoni, vocine stridule, voci imperiose o nasali,  meccaniche, ammiccanti o minacciose, campanelli e risa sbeffeggianti da fare invidia al fantasma di Canterville. Il Mavì: fantastica fantasiosa barca dispersa nelle luci dei ricordi non si sa in che foschie sia invece finita.

Non resta nulla… lo scafo magnifico dell’Old Fox dalle linee sinuose, che accoglievano l’occhio e lo facevano loro per sempre, un ketch di impressionante bellezza, sopravvissuto a guerre e tempeste e che adesso, gli alberi ancora eretti, il boma della maestra semi-accasciato sulla (imperterrita) coperta di teak,  l’albero di mezzana ormai senza sartie ridotto a bastoncino per la girandola di un bambino, stava morendo, ancora magnifico, fiero, ancora dritto in chiglia, conscio della propria bellezza, nell’invasatura che aveva ceduto, quasi appoggiato a un muro di cinta che sembrava aspettarlo, sullo scalo più remoto di un cantiere in piena attività.

Non resta nulla.

(piccoli yacht all’ormeggio Viareggio darsena Europa fine anni 50 – cartolina)

Nothing remains. Boats, my life.

Nothing remains. Boats, my life.

All the vintage vehicles that I used for my travels were Italian and from the 1950s. Indeed, no, one was English. I used to move frequently at that time. When I managed to buy a boat I thought I had made it, I was really happy; that boat, just her, I had seen it a long time before and I fell in love with it as soon as I saw it, immediately. All the boats on board which I got on or which I looked at for a long time as a child and even after, from the quay, have remained etched in my eyes as well as in my heart; I meticulously and emotionally remember the lines of the hulls, the distribution of the superstructures, the sails, the colored line, yellow or blue, of their water lines, the details of the stern and the masts. And the motionless pinwheel of the propellers when they were out of the water on the slipways.

However, among all, the ones that have remained dear to me as the most beautiful areas of that my time of growths are the straight prow of the Sibilla and the Perry, the long fan stern of the old foreign-looking motor yacht that was supposed to have belonged to the Antinoris and became the first floating harbor bar, the enigmatic Nidas, of French origins, high-nosed and her transom to caress the wake; and then the lines already more supple and launched towards the modernity of Edna and Dentale and of its almost twin Qibla, of San Giorgio and Filippo II, the capturing absurdity of the Mavì, an iron brig schooner with bolted plates that with its masts, yards, foresails and double bowsprits seemed ready to take Captain Hook, in a comfortable slack reaching gait, from the docks and pinball machines, where he was already vanquishing rivals and competitors, to some future, still unknown imminent digital competition along even brighter paths, to get stunned, who knows, and slipping brilliantly dizzy in dives and emersions in and from so many new intermittent flashes and sounds, among shrill, nasal and mechanical  winking voices, bells and mocking laughter to make the Canterville ghost envy. Mavì: fantastic imaginative boat dispersed in the lights of memories, no one knows what mists it ended up in.

Nothing remains… the magnificent hull of Old Fox with its sinuous lines, which welcomed my eyes and made them their forever, a ketch of impressive beauty, which had survived wars and storms, the masts still erect, the main sail boom half-slumped on the (undeterred) teak deck, the mizzen mast now without shrouds reduced to a stick for a child’s pinwheel, was now dying, still magnificent, proud, still straight on the keel, conscious of its own beauty, on a socket that had given way, almost leaning against the farthest boundary wall that seemed to be waiting for him, by the most remote abandoned slipway of a shipyard in full operation.

Nothing remains.

(m/y Nidas in navigazione – foto gentilmente concessa da Alfredo Tessi)

(foto del 1951 di ALCA I  – costruzione cantiere Bergamini Viareggio su progetto Bergamini e dell’armatore Fausto Tessi)

 

(foto di Nidas e ALCA I pubblicate by courtesy of Alfredo Tessi)

 

La magnese del Fabbri. Viareggio delle estati.

La magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca più del libeccio sulle onde delle nostre sverinate di poco prima, le schiene inarcate, il petto a dividere le acque come nemmeno Mosè, come lanciati verso una salvezza, la testa immersa tra le braccia allungate in avanti, le punte delle dita a polpastrelli raggrinziti che facevano a tratti capolino dall’acqua là in cima alle mani distese a emergere mentre si scivolava veloci verso le secche, a navigare come temperini sull’acqua sempre più bassa, sempre più bassa, fino a raschiare il fondale ondulato, fino a terra, a riva, ormai arenati, spiaggiati, le ultime lingue di mare che ci raggiungevano carezzevoli ci scavavano intorno ai fianchi in mulinelli morbidi a riempirci i costumi di sabbia. Ora, al libeccio in cima alle cabine la magnese del Fabbri a manciate ci schiumava in bocca, il cartoccino di carta grigina subito vuoto. La prossima volta forse sarebbe stata una gazzosa.

Viareggio delle estati.

lele cerri 2 agosto 2021

Il tempo è implacabile. Ragù e zucchine.

 

Il tempo è implacabile.. quando un’epoca è passata, è passata. E non è più l’epoca in cui qualcuno ti vizi, nessuno ti vizia più. Nemmeno le amiche più più più ma così più che per te, guarda!…, farebbero chi sa che… Nemmeno le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare. Nessuno, niente, nada, nisba, nessuno ti fa più gli zucchini ripieni. E allora? E non te li puoi fare da te? No. Eh no. Perché come tutte le cose speciali di questo mondo, anche gli zucchini ripieni se te li fai da te fanno l’effetto di un regalo di Natale che ti sei comprato da solo un giovedì a caso di dicembre. Ma quella voglia.. quella voglia… Sai non è poi tanto grande in fondo… se lo si guarda sul mappamondo… E uno se la sogna anche la notte e ci si sveglia la mattina, non con quella voglia, che di mattina appena svegli non ci sta, ma con quell’idea lì. E allora uno, a tentoni, gli occhi semichiusi della domenica non troppo presto, decide di tagliar corto, prima di farsi il caffè apre il frigo, tira fuori dal congelatore il ragù che si è fatto la settimana prima e che come tutti i ragù col tempo è diventato più buono, lo mette a scongelare e capisce che ha deciso di volersi bene. Domenica! Vivement dimanche! Domenica è sempre domenica. Sora Menica, oggi è domenica, lassece sta’. Il ragù lì che scongela e lui via per Pedona lungo la via nei boschi sopra Pian di Mommio. La ricetta del ragù? La stessa per tutti, ognuno a modo suo. Il ragù è una delle cose che più somigliano, in ogni sua riuscita, a chi lo fa. Il ragù è il ritratto di se stessi. L’impronta del proprio palato che nemmeno.. nemmeno… nemmeno il commissario Ingravallo del Pasticciaccio. Sicchè, il ragù e lì, scongelato, mia carta d’identità, i piedi giù in fondo alle gambe, li sento ancora sui ciottoli del monte. Gli zucchini nell’acquaio a lavare; li asciugo e li taglio a metà in lunghezza e poi a tocchi, alla camaiorese, diceva la Chica. Il tegame di misura strategica è sul fuoco, con poco poco olio a scaldare bene. E gli zucchini a tocchetti appena ci arrivan dentro ci fanno sfriii sfriii. Come ci fanno gli zucchini a tocchetti? Sfrii!… sfriii!… mentre li giro e li rigiro perché facciano la pellicina sul verde senza sbruciacchiarsi. Guardo la pasta nel pacchetto che mi guarda dalla finestrina trasparente come a difendersi già delle boccate che le darò e mi spara in faccia il suo nome, come se fosse un’ancora di salvezza, un’ultima difesa possibile… Rummo! Solo per te la mia canzone voooola! Ha poco da cantare… Gli zucchini sono al quarto minuto di sfrigugliamento, si prendono una spelucchiatina di peporin-timo e un po’ di sale, un altro mezzo minuto di rigirate sul fuoco molto alto per un altro po’ di pellicina e via che gli piove addosso il ragù scongelato che ricco lo ammanta nell’abbraccio della ricottura insieme. Lo sento già dall’odore il sapore degli zucchini ripieni che non dico le rosticcerie-gastronomie-delicatessen-vien dal mare, ma perfino le mie amiche più più più ma così più che, per te, guarda, per te!.. non mi fanno più. Nun t’accora’.. nun t’accora’!… Ma ci siamo!… la pasta è pronta, di molto ma di molto al dente! …nel ragù salta… zucchin non manca… sul fuoco sventola… bandiera bianca?.. macché!… il gran pavese!!!… Andiamo, è in tavola.

(Parmigiano – uno dei grandi sovrani del mondo – a piacere).

P.S.

Piatti sempre rigorosamente bianchi… i colori trionfali sono quelli dei cibi.Il tempo è implacabile. Ragù e zucchine.

lele cerri 6 aprile 2021

Balenciaga e i dracula

 Balenciaga si rivoltera’ nella tomba. I parvenues arrivano ovunque, da sempre. Sono arrivati anche da lui. Rappresentarlo con questa immagine della collezione 2017-2018 è come mandarlo a cicoria (eufemismo sprecato, vista l’offensività della foto). Come mettere sulla tomba di un morto uno scatto rubato mentre era in bagno con una colica intestinale. E qui, tra l’altro, la colica intestinale non è nemmeno del morto. Come pubblicare il De bello Gallico illustrato con disegni di Giulio Cesare mentre omaggia delle proprie terga l’annoso Nicomede di Bitinia. E lì, almeno, le terga sarebbero di Cesare. Pessima operazione come lo sarebbe dimostrare un periodo storico secondo una logica morale di un altro. Può solo confondere le idee a chi non ha, tra l’altro, almeno il gusto naturale per distinguere M.me Grès dal famolo strano. Sciamani come San Giorgio con l’estintore. Nell’eventuale eccentricità della haute couture – la alta consutura – di Balenciaga, oltre ad inarrivabilità offerte come raggiungibili c’era il segno, il cadere, il fiorire, il variare, il vestire e la vestibilità, linee e sbuffi, restringimenti e abbondanze, allungamenti e accorciature, sbiechi e a piombo, tracce, percorsi, proseguire e riferirsi a logiche rinvenibili e riapplicabili a modelli, nobili o comunque non dozzinali, di ogni epoca precedente snocciolata come la sezione aurea nell’insieme e nei dettagli con le matematiche sapienti e naturali e strutturali  insite nella genialità. Cosa che non avviene quando un bottone non architetta un tessuto come una fibula né lo umilia come un rammendo neorealista né rigenera l’estemporaneità e immediatezza di un cerotto post-village né lo impuntura col miraggio di un futuro interplanetario, quando un arruffio non è un panneggio, quando la sgualcitura non fa la toga, quando un pensiero non dà il la ad un periodo ma si accovaccia su umori correnti, quando chi è trattato da grande non sa o cavalca come un cavalluccio a dondolo non troiano l’onda del non sapere cosa farà da grande e scriverà un segmento di storia trapuntata dei crucci, delle ubbie, delle tragedie depilate di un periodo peloso come il lupo cattivo. Ciao, Pierpaolo, che avete discusso oggi con Il Gruppo Finanziario Tessile? Orli e imbastiture come monorotaie del moderno moralismo classico, il MET come il Sistema. Concept zip, post-mutandismo. Come il promuovere l’universale diritto dell’umanità a una crisi identitaria che ne avvolga di fumo le cause e il loro irrinunciabile inestinguibile incremento. Come una crisi di governo innescata da tronfi tartarini-tamburini di lega leggera telecomandati dai poteri forti pro loro sottomarine battaglie navali finanziarie. Come una mania, una compulsione, un tic, sintomi dilaganti, estranei al raffinato gusto della replica, ordinari come lo è l’attaccarsi sempre all’ultima parola detta, il rispondere sempre soltanto a se stessi. Come salvare il mondo con le nostre soluzioni emerse come Veneri da sotto la schiuma da barba dal barbiere. Come quando una rosa non è una rosa né un crisantemo ma gramigna… Ofelé ofelé.

Conosco giornaliste di moda provenienti da partenze impensabili per una giornalista di moda, soprattutto se nella sua vita laica precedente l’aver preso i voti non ha mai azzeccato una maglietta con un pantalone, un golfino con una gonna, in un nuotare a rana nel non stile dello strangolarsi in sciarpette arrotolate male al collo pur di evidenziare delle per lei presunte firme di pregio che al solo leggerne le prime sillabe si era investiti da una zaffata della tristezza delle fiere di carità. E via, nella sua conversione, una volta unta, a parlare di assoluta indiscutibile sacrosantità della moda fin nel suo ultimo orlo. Lo stesso vada per fotografi di moda che della moda non hanno mai avuto la percezione e da laici vibravano più per il manico di una tazza da caffelatte che per un cadere bene di un taglio perfetto in un tailleur, un abito cocktail, un sera, un trapezio, una proporzione, l’equilibrio rarefatto di un eccesso, rimasti fotografi insensibili al capo, a vita, nonostante la ormai annosa pratica. In questa fucilata sparata a Balenciaga alla luce del consunto principio uccidi il padre e la madre, almeno il fotografo è sensibile al capo che fotografa; tant’è che lo sbugiarda e dispettosamente lo tinge delle tinte di un non rivendicato sacrosanto diritto della moda ad essere moda, lo accende di una spennellata che evidenzia il sapore di anelata anabasi, svela la pur sempre inspiegabile voglia di riscatto mascherata da libertà del sarto che nella veste del sarto si sente stretto, sprecato, come una studentessa di filosofia fra i tavoli della trattoria dove lavora per mantenersi agli studi, e rincorre la catarsi smandrakando, senza riuscire a sfondare la parete, attraverso un pretesto vecchio che odora della muffa del punk e di tutti i postumi di postismi moderni o avanguardistici che siano. Non è più la crisi della società, lo dicevo, è la crisi della sartoria. Lo slogan, che ronza come un nugolo di zanzaracce intorno a questo manifesto di rose colte e ricolte sfiorite e appassite e marcite canta la spudorata nenia erroneamente fatta passare per sussurrata delle buone cose di pessimo gusto. Quelle non sussurrano, urlano, hanno sempre urlato. E grazie al cielo, sono certo, il mio mal di testa non ha nulla a che fare con il gap cosmico della mancanza di senape in un giorno di neve.

Esiste anche la cultura del brutto che non collocherò territorialmente, che fa parte di gusti locali, di civiltà in cui l’eroe è magnificamente cattivo, le mamme muoiono e i bimbi s’arepijano cantando su un prato a strapiombo sulla felicità, esistono territori della storia in cui l’arte del disseminare di Medea ispira strategie di sopravvivenza vittoriose, esistono terre, mentali o no, dove si coltiva la bellezza dell’orrido  (vedi bruttezza del design francese in molta oggettistica Anni 30), per cultura, per estetiche etnogenetiche, ma anche lì, se si lancia un ponte ad attraversare uno stretto, lo si vede arrivare sull’altra sponda, in un qualche accidenti di altra parte; più riscontrabile fisicamente che concettualmente, quando si tratta di robe. O anche no, ma allora si tratta d’altro. La professione della signora Warren era inequivocabile, come la quadratura del cerchio. Lo schiavismo della libertà. La meravigliosa pasticceria di Trieste, dove le commesse in guanti bianchi armate di pinze asburgiche servivano mignon microscopici sulle trine di piattini di porcellana. Il mio cuore che da sempre palpita per il catalogo Black & Decker ne usciva diabetico. Che poi va bene tutto, invece, come è anche sacrosanto tutto il contrario di tutto quello che ho detto fin qui. Viva le pitture rupestri del Borneo e viva Rembrandt, Vasarely e la moka, Narnia e Narni, i misteri eleusini e il quesito con la Susy, Icaro e lo skateboard, Policleto e il silicone. Viva la sperimentazione viva , viva l’Avanguardia, quella vera, quella approssimativa e perfino quella scaltra, viva lo slancio verso qualsiasi direzione che colga ‘ndo colga come un Nostòs nella buriana, in un tifone e in bonacce da vertigine, viva le Veneri e le veneree da Factory, viva il pistone ovale nel cilindro zigzagato, viva, Viva, VIVA! Ma, una precisazione che mi preme davvero: di diabete, è poi morta l’orrenda Mary Poppins?

Il Bello della Diretta o L’Asse di Variazione

 

Asse di variazione – da panico per coronavirus a terrore panico del crollo dell’economia. Enormità di un problema. Mi sembra che, dopo aver lanciato un Total-Alarm,  il governo Conte (forse come avrebbe fatto qualsiasi altro governo) nel rimettere la questione alla coscienza di altri, liberi di decidere in merito, a loro discrezione, si sia un po’ lavato le mani (eufemismo) dalla responsabilità di stabilire precise disposizioni (chiusure) a tutela della salute di chi lavora nelle industrie: operai. Che nella maggior parte dei settori sono impegnati in attività per le modalità ed esigenze delle quali non possono evitare il gomito a gomito, il contatto ravvicinato tra loro o con attrezzi e materiali trattati in comune. E nella stragrande maggioranza, lavorano nella stessa fabbrica, cantiere, industria, in una pendolarità da diversi comuni, spesso significativamente distanti tra loro e dal luogo di lavoro (e qui si apre il fuoco d’artificio, dai contorni simili al sorriso di un emjoi, del modulo di autocertificazione personale, conditio sine qua non). Paura del Sistema? (urlo della folla: “Sììììì”). Ancora a chiedere al Sistema di essere super partes? Come chiedere ad un daltonico di preparare una mazzetta colori. Il problema, grosso, multilama a centomila tagli, è rimasto, rimane da affrontare.  Certo, se il governo Conte avesse disposto responsabilmente anche la chiusura immediata delle “fabbriche” avrebbe esplicitamente automaticamente incluso anche il settore tra quelli aventi diritto a nuovi “interventi di sostegno” stabiliti da parte dello Stato. Un po’ troppo anche per i governi di buona volontà, certo. Troppe fette per una torta sola. E la cerimonia non si svolgerebbe a Cana. Questo matrimonio non s’ha da fare?  Intanto sta, è stato già, ad alcuni Consigli di fabbrica nelle aree soprattuto del medio-grande indotto decidere per l’unica soluzione al momento attuabile: diradare la presenza di lavoratori invitandoli a consumare l’ammontare di ferie maturate e finora non godute. Fino al 25 marzo. Trionfo dell’ottimismo sotto il mantello della prevedibilità e dell’apparente momentaneo “così non si fa male nessuno”. Avremo un altro esempio di buona amministrazione? “Anche la Speme, | ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve | Tutte cose l’obblio nella sua notte“.  “Via dai pazzi sepolcri”, almeno per l’espace d’une nuit, è sembrata la quasi commossa chiosa della diretta, nello sguardo del Primus inter pares da estenuato “non solo al comando” dopo una prova tutta corsa “al gancio” in attesa del bacetto della miss all’arrivo di tappa. Ma sì, ce l’hanno messa tutta, basta col pensiero che ci hanno provato un’altra volta. E anche noi spegniamo la luce e ci mettiamo su un fianco, a dimenticare, anche noi, almeno per lo spazio di un sonno. Senonché, ecco che si riaccende la lampadina di Eta Beta, già mezzo assopiti sgranocchiamo una pallina di naftalina sempre pronta sul comodino e, flàafff, prende luce la pretesa, il sospetto, legittimo, da figlio del Paese, che ai governi non spetti mai il diritto, anche per una sola notte, a sonni tranquilli. Ed ecco il turbinare di pensieri, eccoci vagare sulle dune del calcolo delle possibilità, persi nel ronzio del cervello che vibra a prender la mira sperando immodestamente in un centro nel bersaglio caleidoscopico delle questioni. Potrà più il veloce crollo della caramella da banco o la lenta agonia dei figli dell’Industria Pesante? Scialuppe a mare. Prima le donne e i bambini? Prima i più utili? Diamoci una risposta, mille, mille e una, in un ipotetico acceso e sempre ambito dibattito dal barbiere, di quelli nei quali risolvevamo in un pluff e in un  plaff problemi nazionali ed esteri, col filtro e senza, uno di quei dibattiti ai quali per molto tempo,  pare, non potremo più dar vita.  E intanto, lasciatemi l’impressione che se chiederemo che le nostre vite superino in importanza l’economica ragione, beh, vorrà dire che fin lì avremo avuto come guida la Cieca di Sorrento. E la domanda che mi faccio e che mi toglie la pace che invece cercherei anch’io, chiudendo, è “sì, ma allora tu che faresti?”.